World Tour Confined: Socializzare Distanziati – Intervista a Edwin Bezier

In questi mesi, il termine “distanziamento sociale” è entrato a far parte del nostro lessico quotidiano. Ne abbiamo sentito parlare ogni giorno, in relazione alle norme di sicurezza da adottare per contenere il contagio. E ne abbiamo abusato talvolta, utilizzandolo in senso più ampio, quasi a voler esorcizzare le motivazioni che ne hanno determinato la tragica fama, ignorando così anche le sue conseguenze ancora più drammatiche, a livello sociale, economico e psicologico.
Il distanziamento sociale, in sé, significa lontananza e questa inevitabilmente comporta un’interruzione brusca e involontaria delle interazioni umane. In realtà, però, i modi per salvaguardare e rafforzare le relazioni tra gli individui, senza implicarne prossimità fisica, esistono. E il progetto di Edwin Bezier, World Tour Confined, ne è la prova. Rappresentazione creativa e appassionata di un’umanità ampia, poliedrica, complessa… ma mai distante.
In cosa consiste questo tour fotografico intorno a un mondo – temporaneamente – “confinato”? E come è nata l’idea?
Un “tour intorno a un mondo confinato” vuole essere un incontro virtuale tra persone fisicamente lontane, attraverso un utilizzo sano dei social network, fatto di scambi, scoperte e curiosità. Il progetto nasce dal desiderio di scoperta e si è sviluppato attraverso una serie di domande che ho iniziato a pormi a seguito di quelle che chiamerei “esperienze costrette” al limite tra il viaggio e la performance artistica.
Durante i miei studi in scienze sociali, ho acquisito una consapevolezza sempre maggiore del mondo che tutti noi abitiamo – dalle diseguaglianze socio-economiche agli squilibri nei sistemi ecologici – e ho cominciato a mettere in discussione lo stile di vita occidentale. Realizzare che siamo noi stessi i fautori dei limiti che caratterizzano questo modello è stato scioccante. Avevo bisogno di mettere in ordine i pensieri e fare chiarezza, così ho deciso di partire, solo con uno zaino in spalla: niente soldi né tecnologia, non volevo essere bombardato dalle informazioni, dai social network e dall’ansia del tempo che passa… Non avevo neanche un orologio con me.
Sono partito dalla costa ovest della Francia, Rennes (la mia città natale), ho raggiunto Parigi, Cannes… Poi, ho percorso la costiera mediterranea per arrivare in Gran Bretagna. Mi sono interrogato molto su quali fossero le esigenze veramente essenziali dell’essere umano e quali i mezzi di comunicazione migliori; su cosa fosse la fiducia e come mettere in pratica le intenzioni…
Ho sempre sognato di girare il mondo. Quando hanno annunciato il lockdown in Francia e la chiusura di tutti i confini, mi sono detto che era il momento giusto per vivere una nuova avventura, in cui l’identità individuale emerge grazie alla forza della comunità. È questo il filo conduttore del mio progetto e credo che lo porterò avanti finché riuscirò.
Grecia, Ucraina, Rwanda, Italia, Azerbaidjan, Tunisia, Argentina… La tua mostra è un abbraccio alle persone di tutto il mondo.
In che modo sei riuscito a entrare in contatto con loro? Conoscevi già qualcuno?
La maggior parte delle mie esperienze sono caratterizzate da cose semplici, essenziali… Mi piace creare le condizioni per cui i rapporti umani che instauro si basino sull’intimità e la sincerità. Parto a piccoli passi e attualmente entro in contatto con le persone iscritte a gruppi sulle reti social. Anche se mi piacerebbe riuscire a trovare nuove modalità per conoscere e interagire.
A seguito dello sviluppo tecnologico e dell’uso dei social network, particolarmente smodato in tempi di clausura come quello che stiamo vivendo, la Rete ha creato il miraggio di una “prossimità emozionale”, con il rischio, sempre più concreto, di falsificare la comprensione che abbiano di noi stessi e degli altri, e di trasportarla su un piano meramente percettivo. In altre parole, la solidarietà e l’empatia si dissolvono per cedere il passo a un “senso di comunità”, evanescente e individualista.
Come ha scritto la Turkle, in La conversazione necessaria:
Un’applicazione informatica è in grado di offrirvi un numero, ma solo una persona è in grado di offrirvi una narrazione. La tecnologia può esporre il meccanismo; le persone devono trovare un senso.
In questo modo, Edwin va controcorrente rispetto alla stragrande maggioranza dei social users, che con consumistica voracità creano una comunità fragile e effimera, nella quale non è previsto l’impegno di un confronto reale con gli altri membri. World Tour Confined non è un “muro” di volti. È storie, luoghi, interessi, ricordi… è umanità, in tutte le sue sfumature.
Cosa hai imparato ascoltando così tante narrazioni? C’è qualche storia che ti ha colpito in modo particolare e che hai voglia di condividere?
Il concetto di storytelling ha sempre suscitato in me grande interesse. Dopo aver letto “The Fabulous Species” di Nancy Huston, ho iniziato a rendermi conto dell’importanza che le storie hanno nella nostra vita. Tutti i racconti che ho ascoltato e gli scambi che ho vissuto sono stati molto arricchenti… e alcuni di questi mi hanno colpito in modo particolare… Dalla Brexit e il posto dell’Africa nell’agenda mondiale, all’amore e la famiglia. Un abitante del Bhutan mi ha spiegato cos’è “Gross Inner Happiness” e una donna indonesiana mi ha parlato del ruolo delle donne nella sua comunità. Poi, ho avuto un interessante scambio con uno scienziato turco sul transumanesimo… Ma sicuramente dimentico qualcosa.
Mi ha colpito in modo molto forte la testimonianza di una donna keniota che ha scalato il Kilimanjaro, un sogno che ha richiesto tanti sforzi, fisici e mentali, e un forte spirito di resistenza di fronte alle ostilità. Per me è fonte di grande ispirazione scoprire come le difficoltà fanno emergere in noi inaspettate risorse, in grado di farci compiere azioni che fino ad allora credevamo infattibili e realizzare i nostri desideri. È confortante leggere storie del genere, soprattutto in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo.
Per certi aspetti, il progetto di Edwin è molto vicino a HUMANS: un viaggio antropologico e artistico intorno al mondo, con l’obiettivo di condividere racconti e esperienze personali, creare legami e sentirci tutti parte di una vera comunità.
Nel suo celebre Saggio sul dono, Marcel Mauss definisce il “dono” come fondamento per la creazione di legami sociali, compresenti e solidali. Donare è avere cura dell’altro. Ricevere è avere voglia di aprirsi all’altro. Contraccambiare è porre le basi per un’esistenza piena, empatica e… felice.
Edwin, cos’è per te la felicità?
Non credo di aver ancora trovato una risposta a questa domanda. Al momento, direi che per me la felicità è essere in uno stato di equilibrio, nel quale la storia passata s’intreccia con le proiezioni future. È avere la sensazione di essere nel posto giusto, al momento giusto, senza avvertire l’esigenza di voler scappare via.

Appassionata di scrittura e giornalismo, provo a dare forma ai diritti umani con le parole.
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