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Progetto Abito: Inclusione, Sostenibilità e Femminismo – Intervista a Elisa Valenti

Scritto da:

Benedetta Pisani

L’impiego intensivo di risorse naturali, lo spreco di materiali, la difficoltà di garantirne il riciclo, lo sfruttamento del lavoro e la violazione dei diritti umani, fanno della moda uno dei settori più inquinanti in assoluto. Il modello dominante nelle filiere industriali del tessile segue un processo violento e brutale di sfruttamento, sovrapproduzione e rifiuto. Per i 7,8 miliardi di abitanti del Pianeta, infatti, si producono oltre 100 miliardi di capi di abbigliamento. Di questi, una quantità pari al valore di 4 miliardi di euro non viene venduta e, insieme a tutti i vestiti buttati via dopo un consumo piuttosto breve – molto più breve rispetto al passato – diventa un cumulo di spazzatura.

Per sovvertire questo ordine brutale nei confronti dell’ambiente e degli esseri umani, la dinamica della Collaborative Consumption sta spalancando le porte a modelli innovativi di fruizione della moda, in cui i consumatori, invece di acquistare nuovi capi di abbigliamento, hanno accesso a capi già esistenti mediante opportunità alternative, tra cui lo scambio, il second-hand, la condivisione, il prestito, l’affitto, e la donazione.

La nuova protagonista di HUMANS si chiama Elisa ed è la coordinatrice di Abito, un progetto torinese di distribuzione di abiti donati, che arricchisce il classico servizio con i valori aggiunti della socialità e dell’inclusione.

Come è nato Abito? Qual è la sua mission? E, nella pratica, in che modo i cittadini possono sostenere il progetto?

Il Progetto ABITO è nato nell’autunno del 2019. Già da decenni la Società San Vincenzo de Paoli di Torino gestiva un servizio di distribuzione rivolto a persone a basso reddito. Alcuni volontari da un lato avevano il desiderio di trasferire le attività in un locale che rendesse il servizio più dignitoso e fruibile, dall’altro si sono resi conto che l’abito poteva essere uno strumento per instaurare relazioni con gli utenti. Da qui, nasce anche la scelta del nome: accanto ad un abito dignitoso per tutti, vogliamo che i nostri beneficiari “abitino”la comunità, che siano parte attiva di essa. Per questo, un nostro punto chiave è la partecipazione dei nostri utenti, che, in condizioni sanitarie “normali”, aiutano a gestire l’emporio di vestiti, affinché non si sentano beneficiari passivi, ma possano comunque mettere a disposizione di tutti le loro competenze.

Chiedere aiuto per alcune persone è difficile e pensiamo che la gestione partecipata dell’emporio sia un fattore che contribuisce a far sentire a proprio agio i nostri utenti. L’altro fattore importante è il fatto che il nostro emporio ha a tutti gli effetti l’aspetto di un vero negozio. Già solo l’aver strutturato la distribuzione in questo modo incoraggia tutte quelle persone che si sentirebbero a disagio ad entrare in contatto con associazioni e con i cosiddetti enti caritatevoli. Da noi, invece, capita spesso che entrino persino passanti chiedendo di comprare dei capi esposti.

ABITO tuttavia non è solo inclusione sociale. Cuore del progetto è anche la sostenibilità ambientale. Noi riceviamo ogni settimana 300kg di vestiti, rimettendo in circolo abiti che altrimenti, molto spesso, sarebbero buttati. Cerchiamo, nel nostro piccolo, di sensibilizzare le persone alle problematiche della fast fashion e, anche con i nostri utenti, mettiamo limiti ai capi che possono prendere, perché vogliamo che ricevano solo ciò di cui vi è un effettivo bisogno, piuttosto che incoraggiare ad accumulare capi solo perché gratuiti. Recentemente il nostro mix di impegno sociale e sostenibile ha preso una nuova forma: ci siamo accorti che, nonostante chiedessimo di non portarci abiti formali, talvolta ci arrivavano comunque e giacevano in magazzino perché non richiesti dai nostri utenti. Abbiamo così avviato l’iniziativa “Un armadio di lavoro”, una distribuzione di abiti più eleganti adatta a chi dovesse sostenere un colloquio, stesse per laurearsi, o avesse bisogno di vestiti più formali per un nuovo lavoro. Questo ci ha permesso di rimettere in circolo altri abiti e di poter sostenere quanti, in questo periodo complicato, fossero alla ricerca di un nuovo lavoro.

La comunità può sostenere il progetto donando vestiti (in ottimo stato!), donando attrezzature e beni per i nostri corsi di sartoria rivolti a donne disoccupate oppure facendo una donazione al progetto per sostenere i costi vivi di gestione.

Negli ultimi anni, i temi della sostenibilità ambientale e della riduzione agli sprechi alimentari, stanno attirando una maggiore visibilità, anche a livello legislativo. La logica delle 3R (Riduci, Riutilizza, Ricicla), alla base dei nuovi modelli di economia circolare, appare particolarmente promettente rispetto al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. In particolare, il n.6 “Acqua pulita e igiene”; il n.7 “Energia pulita e accessibile”; il n.12 “Consumo e produzione responsabili”; il n.13 “Agire per il clima”; il n.14 “La vita sott’acqua”, e il n.15 “La vita sulla terra”.

Tuttavia, la stessa attenzione non è dedicata al settore dell’industria tessile e della moda, che continua a passare in secondo piano.

Che impatto ha la scarsa considerazione, mediatica e legislativa, attribuita al fenomeno della moda, rispetto alla percezione che i cittadini hanno del concetto di “donazione” e, di conseguenza, dell’abbigliamento come strumento di inclusione sociale?

In questi anni l’attenzione verso gli sprechi è sicuramente aumentata. Tuttavia quando si parla di sprechi spesso si pensa solo al cibo. Ci sono app che aiutano ad evitare gli sprechi di alimenti, ci sono tantissime associazioni che recuperano cibo nei negozi e mercati mettendolo a disposizione di chi ha un basso reddito e la legge Gadda ha semplificato la donazione di cibo, promuovendo quindi anche una maggiore giustizia sociale. Fondamentalmente tutti questi dispositivi funzionano come strumenti redistributivi, dove si sostiene chi ha meno capacità economiche e nello stesso tempo si evita la produzione di rifiuti. Il discorso sulla moda però è diverso. Il cibo è un prodotto che viene consumato e che ha intrinsecamente una durata limitata. Abbiamo una necessità quotidiana o settimanale di procacciarci il cibo. Non è così per la moda e quindi non possiamo applicare ad essa le stesse categorie che applichiamo al cibo. Sicuramente vi sono analogie, anzi, in entrambi i casi vi è un chiaro problema all’inizio della filiera, nella fase produttiva. Ma non possiamo immaginare che la donazione sia uno strumento altrettanto adeguato a risolvere gli sprechi di vestiti, semplicemente perché non ci sono abbastanza persone (e non dico persone “bisognose”, ma persone) per tutti i vestiti che produciamo. Secondo il network Fashion Revolution ogni anno vengono prodotti 150 miliardi di vestiti. La popolazione globale non raggiunge gli 8 miliardi e in ogni caso la nicchia a cui si rivolge la fast fashion comprende meno di 2 miliardi di abitanti di Europa, Americhe e Asia. Che fine fanno quindi tutti questi vestiti? A chi donarli, quando diventano “fuori moda”? E poi è corretto parlare di donazione o forse si tratta di smaltimento?

Le associazioni come la nostra recuperano parte di questo spreco e lo redistribuiscono a persone a basso reddito. Noi associazioni ovviamente abbiamo capacità limitate, non riusciamo ad essere il bacino in cui la cittadinanza può far confluire i propri vestiti usati e molte cose finiscono nei cassonetti urbani e da qui spesso raggiungono paesi africani, i quali ricevono prodotti a basso costo che nel giro di anni, per la loro scarsa qualità, diventano inevitabilmente rifiuti. Proprio su questo, ha fatto discutere il fatto che il Rwanda, aprendo un caso diplomatico, vietasse le importazioni di vestiti usati dagli Stati Uniti, perché in conflitto con l’ecologia e l’economia del paese.

La quantità di abiti donati, tuttavia, non è l’unica questione. Vi è infatti anche un problema di qualità. Molte delle cose che riceviamo non sono adatte ad essere distribuite a terzi perché lise, bucate, logorate… Questo spreco in realtà non parla solo della scarsa qualità dei prodotti del fast fashion e il fatto che siano progettati per non durare, ma parla anche della scarsa considerazione sociale che talvolta alcuni donatori hanno verso chi non può permettersi vestiti. Vi è l’idea che vestiti non più adatti a me perché in cattive condizioni possano comunque essere adatti a qualcun altro, semplicemente perché questa persona non ha scelta. Noi di ABITO insistiamo molto sul fatto che la donazione è un atto di cura per il prossimo, non un modo per smaltire vestiti, e che gli abiti che noi distribuiamo debbano far sentire chi li indossa a proprio agio e non connotare socialmente una persona e le sue possibilità economiche.

Durante la nostra chiacchierata pre-intervista, Elisa mi ha raccontato che la maggior parte dei vestiti raccolti dall’associazione sono generalmente femminili. Questo dettaglio, apparentemente innocuo, la dice lunga sulla pressione sociale esercitata dal mondo della moda sulle donne e sulla gerarchia di potere che vede la femminilità costantemente subordinata alla conformità estetica. La fast fashion trova sua linfa vitale proprio in questo meccanismo tossico, che continua a perpetrare ruoli e aspettative di genere.

Questo non è l’unico motivo per cui dovremmo iniziare a considerare la moda una questione femminista, tutt’altro che frivola e leggera. La maggior parte dei capi di abbigliamento che indossiamo, sono realizzati in stabilimenti produttivi di confezione localizzati in Bangladesh, Vietnam, India, Cina, Cambogia e Filippine, principalmente da donne (circa l’80%), alle quali sono destinati salari indecenti, condizioni di lavoro precarie (non dimentichiamo il crollo di Rana Plaza, in Bangladesh…) e molestie sessuali. Quella che appare come “moda alla portata di tutte” cela un’atroce complessità, che è necessario portare allo scoperto.

Cos’è la fast fashion e in che modo l’economia circolare applicata al settore della moda può aiutarci a affrontare attivamente il problema?

La fast fashion è sicuramente un fenomeno trascurato rispetto ad altri tipi di sprechi. Laddove viene considerato, esso appare solo nella sua dimensione ecologica, trascurando gli aspetti di disuguaglianza razziale e di genere. La realtà è che oltre al tremendo impatto ambientale, la moda perpetra anche forme moderne di schiavitù le cui vittime sono le lavoratrici di paesi asiatici. Considerare la moda come una questione femminista implica quindi ripensare i nostri modelli di consumo, andando ad approdare eventualmente verso forme di non-consumo o, come accennavi all’inizio della nostra intervista, collaborative consumption. Non consumare e boicottare abiti di brand fast fashion è sicuramente una forma di solidarietà con le lavoratrici sfruttate, ma è anche uno sciopero femminista dal dover aderire a canoni estetici di bellezza (e spesso magrezza) dove le donne devono essere conformi a determinati immaginari. Proprio questa pressione a dover aderire a modelli di bellezza sta anche alla base della cosiddetta pink tax, ovvero il sovrapprezzo applicato ai prodotti pubblicizzati come “femminili” rispetto alle loro controparti “maschili”. Lo scambio di vestiti, il ritorno ai mercatini dell’usato e soprattutto non comprare cose di cui non si ha bisogno sono strumenti utili per scardinare i diversi tipi di sfruttamento femminile della nostra economia.

L’inadeguatezza e l’ingiustizia del modello economico su cui l’industria della moda si è costruita, a partire dagli inizi del ventunesimo secolo, sono stati impunemente smascherati durante la pandemia. La chiusura dei negozi ha provocato danni inestimabili all’economia ma, allo stesso tempo, ha generato una presa di coscienza generale. Non abbiamo bisogno di 10 paia di jeans, che per essere realizzati richiedono un consumo d’acqua pari a 100 anni di approvvigionamento per una persona. Abbiamo riscoperto il piacere della comodità. Non abbiamo bisogno di shopping compulsivo per distrarci, per compensare una mancanza o essere felici. Abbiamo riscoperto il piacere della noia, dell’assenza e dell’esistenza.

Elisa, cos’è per te la felicità?

Vedo la felicità come un’utopia e qualcosa che forse posso avere solo in modo incompleto. Finché ci sarà una lavoratrice oppressa, una persona discriminata e che non può autodeterminarsi, fino a quando ci sarà un animale sfruttato e fino a quando continueremo a distruggere le nostre foreste e i nostri mari non credo sarò davvero felice. Ma forse allora l’attivismo è uno strumento per raggiungere la felicità.

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