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Diane Arbus – La Fotografa Della Diversità

New York 1923 – Greenwich Village 1971

Estate di tanti tanti anni fa, caldo, noia esistenziale, zapping notturno. Erano gli anni in cui su La7D se avevi abbastanza resistenza alle due di notte potevi beccare qualcosa di interessante che non fosse l’ennesima replica di “Grey’s Anatomy” (magari la puntata della morte di Denny, sigh) o di “Buccia di Banana”. Mi imbattei infatti in un programma di cinema di cui purtroppo non ricordo il nome. Iniziano a introdurre quella che sarà la pellicola cinematografica che manderanno in onda poco dopo, gente più o meno esperta che parla, parla e parla. Io, con un occhio mezzo aperto e l’altro mezzo chiuso, penso che sia giunta l’ora di trascinarmi a letto.

E invece scatta qualcosa. Dicono che Nicole Kidman in questo film interpreterà il ruolo di una donna di New York, una fotografa dalla vita curiosa, mai sentita prima. Robert Downey Jr, invece, reciterà la parte questo personaggio altrettanto misterioso, al limite del “mostruoso”, di cui la donna si innamorerà e per il quale deciderà di cambiare completamente vita. Il tutto ovviamente condito da una buona dose di romanticismo fittizio che nella realtà non è mai esistito. 

“Fur – un ritratto immaginario di Diane Arbus” è stato il film che mi ha fatto scoprire questa artista e che per molto tempo mi ha fatto fantasticare e sognare tempi lontani che non conoscevo minimamente. Un film che ho adorato per anni e anni. Cercandolo ora le recensioni non sono altissime, ma tant’è, pazienza, quello che mi ha lasciato dentro è stato decisamente più rilevante.

E quindi, chi è questa fantomatica “fotografa della diversità” che mi ha tanto rapito?

Perché della “diversità”, innanzitutto. I soggetti di Diane sono, per l’appunto, i diversi, gli emarginati, coloro che si scostano dalla tanto amata “normalità” imposta nell’America degli anni ‘50 e ‘60. Anni in cui Diane si è sempre sentita molto stretta e non riusciva a trovare il proprio posto. Nata in una ricca famiglia di origini russe, riceve una buona educazione, si sposa giovanissima con un dipendente della catena di grandi magazzini del padre e decide di rinunciare all’università per coronare il suo sogno d’amore. È suo marito, Allan Arbus, il fotografo in realtà. Lavorano insieme per un po’ di tempo facendo servizi fotografici legati per lo più al mondo pubblicitario e alla moda. Il ruolo di Diane è principalmente quello di assistere il marito, ma c’è qualcosa che ribolle dentro di lei. 

Alla fine degli anni ‘50 si mette anche lei a studiare quello che sarà il suo mezzo di espressione preferito, la fotografia. Lisette Model le aprirà un mondo, un mondo in cui lei possa divertirsi e scoprire un lato diverso da quello patinato delle pubblicità a cui è tanto abituata. Ed è a partire dagli anni ‘60 che Diane inizia a muovere i primi passi all’interno del mondo dei freaks

Va a all’Hubert’s Museum, dove si esibiscono personaggi a dir poco bizzarri, inizia a familiarizzare con quelli che saranno i suoi soggetti prediletti. Nel frattempo, si separa da Allan, nascondendolo alla famiglia per anni.  Ma chi sono questi “diversi”. Al Club ’82 di New York ci sono donne vestite da uomo, un gigante cieco con la barba, ma Diane è attratta anche dai transgender in bigodini, dai nani, dai gemelli. La cosa interessante di queste fotografie è il fatto che i freaks sono rappresentanti all’interno del loro habitat, e lei non li guarda dallo spioncino della porta. No, lei ci fa amicizia, instaura rapporti, non si vergogna di loro. Anzi, è lei che si sente in difetto all’inizio quando entra nel loro mondo, sentendosi banale di fronte alla loro straordinarietà. Coloro che dovrebbero sentirsi strani e spaesati sono coloro che guardano le fotografie, sono loro che devono sentirsi disorientati e fuori luogo, i cosiddetti “strani” stanno benissimo dove sono. All’inizio questi personaggi non si fidano di lei, perché dovrebbero, esser fotografati per esser derisi magari? Invece no, con lei instaureranno un vero e proprio rapporto di amicizia e intimità, rincuorati dal fatto che Diane era mossa dalla conoscenza della diversità, senza il filtro del pregiudizio. 

Il suo intento era di fotografare ciò che altrimenti sarebbe rimasto invisibile, nascosto, voleva scoperchiare un lato della realtà che esisteva e poteva essere tangibile, ma solo se lo si voleva veramente. Non voleva insegnare una morale, o fare la paternale a nessuno, la sua fotografia è così com’è, nuda e cruda realtà. Il diverso esiste? Sì, e allora io te lo faccio vedere e non puoi esimerti dal non guardarlo. Ovviamente c’è una chiara vena provocatoria nei lavori di Diane, che però non viene palesato tramite la rappresentazione dei soggetti stessi, ma attraverso la resa della foto. La provocazione sta sul come riesce a rendere le figure asciutte, rigide, come le costringe a guardarla direttamente nella camera. Per ritrarre soggetti di questo genere in maniera così diretta, in quel periodo, ci vogliono coraggio e indipendenza. E lei di queste due qualità ne ha da vendere. 

In quegli anni non è affatto facile per lei far capire la sua ottica e le intenzioni che si celano dietro il suo lavoro. Le sue foto sbattono in faccia una realtà di persone che esistono e che i newyorkesi benpensanti hanno difficoltà nel guardarle, mentre vengono fissati da questi “diversi”, catturati e impressi nella pellicola fotografica per sempre. 

La difficoltà nel comprenderla sta nel fatto che ritrae ciò che la ossessiona nel profondo. Neanche Diane faceva parte di quel mondo controverso e oscuro, in realtà. Lei stessa aveva iniziato a osservarlo dai margini, timidamente, ed è per questo che trapela una natura da predatrice nelle sue opere. Viene rappresentata l’accettazione del suo conflitto interno, il saper che l’esser attratta dall’anormalità non era normale. Ciò che la distingue è che in tutto questo scenario di stranezze riusciva a donare ai suoi soggetti un’umanità, una fierezza, e un fascino straordinari. Ogni soggetto è unico, autentico e, catturati nella loro intimità, riesce a separarli dalla società, sono semplicemente persone, semplicemente individui. Anzi, per lei non sono solo individui, sono supereroi che hanno già superato la prova della vita, rendendoli invincibili e in un certo senso “aristocratici”. Dalle sue parole:

“Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione… Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io.”

La depressione, l’epatite, l’abuso di farmaci, purtroppo, è un ciclo non le dà tregua, e nel 1971 a soli 48 anni decide di porre fine alla sua stessa vita. La Model, sua mentore, aveva percepito la sua frustrazione già dalle prime lezioni che avevano fatto insieme. Quando veniva nel suo studio era convinta che Diane fosse arrivata “subito prima o subito dopo un esaurimento nervoso”. Ed era stata proprio la sua insegnante a spronare Diane a tirare fuori l’ansia e l’inquietudine e a somatizzarle attraverso gli scatti. 

Come tanti altri artisti, le sue opere sono state capite e apprezzate soprattutto dopo la sua morte, e le sue fotografie sono state fonte di ispirazione per una generazione di giovani artisti. 

Sua figlia, a un anno dalla sua morte, descriveva la fotografia della madre come un suo segreto, ma non la foto in sé, il processo per arrivare a quella foto era il mondo segreto e turbolento di Diane. Spesso aveva raccontato alla figlia che il mondo in cui era vissuta, da piccola, man mano che cresceva non lo riconosceva più, non capiva e chi e cosa appartenesse, sentiva addosso il peso di non poter fare ciò che era considerato proibito. E la sua fotografia ha appunto a che fare con questo. Scoprire e rivelare ciò che era proibito. 

Ritornando al film, tutto questo è stato trasmesso all’interno della pellicola in maniera piuttosto semplice, forse troppo, ma dando comunque un assaggio della visione del mondo che aveva Diane. Una Nicole Kidman palesemente tormentata dai suoi demoni interiori si sente stretta nella sua vita di moglie, madre, assistente del marito. Sente di avere questa dualità all’interno del suo animo e nella pellicola lo hanno voluto trasmettere attraverso un gioco di specchi e contrasti secondo me molto significativi. Occorre fare una precisazione, la storia d’amore che viene rappresentata non esiste assolutamente nella realtà, ma lascia una curiosità nel conoscere meglio la storia di questa donna tormentata, controversa, in anni in cui il tormento doveva essere celato, nascosto, dove il perbenismo doveva avere in qualche modo la meglio. 

“My favourite thing is to go where  I’ve never been”

BIBLIOGRAFIA

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