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Bridget Jones ha scritto un diario veramente brutto

Scritto da:

Benedetta Pisani

Pochi mesi fa, ho compiuto venticinque anni. Incredula di fronte alla constatazione di non avere più ventuno anni, ho avvertito l’impellente necessità di ribellarmi ma i festeggiamenti della sera prima mi avevano parecchio tramortita e l’idea di ingerire altri alcolici non mi allettava per niente. Guardare un film che mi ricordasse malinconicamente l’adolescenza, insieme al mio migliore amico, mi sembrava la soluzione perfetta. Coperta, biscotti al cacao e la commedia invernale preferita dalle quindicenni degli anni ‘10, Il diario di Bridget Jones.

L’euforia presto è stata rimpiazzata da un’amara consapevolezza: in un’ora e mezza, mi sono trascorsi davanti agli occhi tredici anni di pensieri negativi sul mio corpo, la paura di non essere abbastanza bella e intelligente, la dinamica disfunzionale che mi ha fatto provare attrazione per una certa tipologia di essere umano… L’agognante inseguimento dello standard di bellezza occidentale del 21° secolo, che è una costante durante tutta la durata del film.

Come può una frase sola contenere così tanta violenza? Consumistico bisogno di cambiamento, grassofobia e paura della solitudine. 

Come scrivono Chiara Meloni e Mara Mibelli nel loro libro Belle di faccia:

“La lista dei desideri/della spesa che ognuna di noi si è trovata a stilare mentre severa osservava il proprio riflesso nello specchio potrebbe essere infinita. Si chiamano standard di bellezza e non sono scesi dal cielo come comandamenti, sono un prodotto del patriarcato e del capitalismo intriso di sessismo, razzismo, classismo e abilismo. Sono irrealistici, sono irraggiungibili, eppure per anni ci siamo tormentate. […] Il corpo delle donne è sempre stato spazio politico, il modo in cui ci viene richiesto di performare il nostro genere è uno strumento di oppressione. Più siamo impegnate a disprezzare il nostro corpo, a lavorare sul nostro aspetto e a impiegare il nostro tempo per essere socialmente accettabili, più siamo controllabili e migliori consumatrici.”

E nella lista dei desideri di Bridget Jones, la perdita di peso è quello su cui la protagonista ripone maggiore sforzo e fiducia: dimagrire la renderà una persona migliore, in tutto e per tutti e, come naturale conseguenza, troverà l’amore della sua vita. 

Viene continuamente proposta questa martellante coesistenza tra sesso/amore e peso, come se l’assenza di uno fosse causa diretta della presenza dell’altro. Siamo costantemente spinti a ricercare l’autosufficienza, ma allo stesso tempo imprigionati in una condizione di eterna insoddisfazione, di inevitabile solitudine. Sartre diceva che la solitudine è una parte essenziale della condizione umana. E fin quando sulla solitudine aleggerà una nuvola impregnata di vergogna, allora perché non dovremmo voler diluire il dolore stando con qualcuno? Nello specifico, con un uomo.

Bridget Jones aspetta “quello giusto” e, nel frattempo, si sottopone a terrorizzanti routine di bellezza. Indossa mutande contenitive per appiattire una pancia che è già piatta, monitora costantemente il suo peso… D’altronde, l’idea che dobbiamo essere curate e magre, altrimenti nessuno ci prenderà mai, e che per imbellire dobbiamo soffrire, è fortemente radicata nella società occidentale. 

“Chi bella vo’ pare’, pene e gguaje adda pate” – In napoletano, l’idea rende ancora meglio.

E a proposito di linguaggio… Il diario di Bridget Jones non è esente da un’abbondante dose di fat talk, un ulteriore sintomo di grassofobia e un potente strumento di fat shaming. 

Molto probabilmente, anche noi abbiamo pronunciato frasi del genere, da sole o in compagnia di altre persone, alimentando un circolo vizioso di disprezzo per noi stesse e per i corpi grassi, dal quale è impossibile uscirne illesi. Cito ancora Chiara Meloni e Mara Mibelli:

“Diversi studi hanno dimostrato che il fat talk può portare a sviluppare un rapporto negativo nei confronti del proprio corpo anche in chi prima non lo aveva.”

E se questo vale per le interazioni tra persone della stessa cerchia, il danno può essere ancora più grande quando a parlare con così tanto disgusto del proprio corpo è Bridget Jones, davanti a milioni di giovani spettatori e spettatrici.

Ovviamente, non poteva mancare la molestia sessuale, mascherata da goliardica complicità.

Una mano sul culo, così. E lei? Sebbene l’espressione degli occhi appaia sorpresa, non dice una parola e rimane immobile.

Come spiega Marina Pierri nel suo intervento pubblicato nel libro Anche questo è femminismo:

“Quello che si decide di rappresentare con una determinata storia è una condensazione della realtà caricata di senso. E le storie, del resto, fanno quello che devono fare: intrattengono, ma non possono fare a meno di veicolare, in maniera soft,l’hard power nel quale sono immerse le loro strutture produttive. Binarismo di genere, suprematismo bianco, suprematismo maschile, suprematismo capitalista sono le forze motrici sotterranee di gran parte di quella che riconosciamo come rappresentazione mainstream. Cosa ne è, dunque, di tutto quello che non è funzionale alla manifestazione di ordine e controllo patriarcale? Mostrare implica anche (e per forza) nascondere. In questo silenzio e in questa oscurità, nel secolo hollywoodiano appena trascorso, sono rimasti gli scheletri di ciò che l’ordine costituito fingeva non vi fosse. Questa è l’illusione sociale della rappresentazione: che quanto rappresentato costituisca la sola e possibile interessa e giustezza nel mondo.”

Una volta presa coscienza del fatto che film come “Il diario di Bridget Jones” non rappresentano una realtà vera per tutte le persone, ci scontriamo con l’impossibilità di eliminare le “parastrutture del potere” dall’oggi al domani. Cosa possiamo fare, quindi?

Possiamo iniziare a leggere i dati della rappresentazione audiovisiva, perché parlano chiaro e sono uno strumento di resistenza contro chi grida alla “dittatura del politicamente corretto”. E possiamo modificare il modo in cui parliamo di determinati argomenti, perché il cambiamento parte dalle parole e noi possiamo scegliere di usare quelle più rappresentative e inclusive, almeno nella nostra sfera personale.

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