Vai al contenuto

HUMANS OF THE BALKANS – Bratunac, Bosnia

Scritto da:

Benedetta Pisani

Un taxi per Bratunac

La sveglia suona alle 6.30 e io mi accorgo di aver dormito con una coperta leggera. Negli ultimi due mesi non mi era ancora capitato di avere freddo durante la notte, bello. La luce filtra insistente da una fessura della finestra non coperta dalla tenda blu. Mi alzo, faccio piano perché credo che George stia ancora dormendo. Aspetto che si svegli e nel frattempo preparo le ultime cose con calma. Iniziare il viaggio nei Balcani in compagnia mi rasserena. Una borsa di tela piena di cibo, macchina fotografica nello zaino e una felpa da tenere a portata di mano. Secondo me oggi fa proprio freddo. Renata, il minivan di Mica e Noè, è pronta per accompagnarci alla fermata dei Flixbus in corso Vittorio. Iris ha una chitarra sulle spalle, Mica una borsa frigo più figa della mia e Noè porta alcuni hula hoop attaccati allo zaino. Cerchiamo Cecilia e Martina con lo sguardo. Immaginiamo che siano già arrivate e che siano esattamente allo stallo dove fermerà il nostro bus. Gli occhi stanchi e lo sguardo emozionato. Caffè al volo e via. Si parte. 

Il viaggio in bus è stato più lungo del previsto. La coincidenza da Zagabria è saltata, così abbiamo cercato soluzioni per trascorrere lì la notte. Cioccolato e taralli hanno aiutato a non farci perdere d’animo. Telefono l’Hotel Mariott Bonvoy – il nome suona molto più prestigioso di quanto l’albergo fosse effettivamente. Risponde una voce maschile, mi chiede di fargli lo spelling del mio cognome incomprensibile: P-I-S-A-N-I. Moquette verde e mini bagnoschiuma all’olio d’oliva. Per quella notte, un tetto sulla testa lo abbiamo trovato. Ma ci tocca ancora capire come raggiungere Bratunac, poiché gli autobus in partenza da Zagabria il giorno dopo sono tutti pieni. Un’idea folle mi sfiora. La paleso, un po’ timidamente: “Ma un taxi?”

Ancora stento a crederci e quando lo racconto mi sento un pochino in imbarazzo (parliamoci chiaro, è indiscutibilmente assurdo), ma il giorno dopo abbiamo attraversato il confine con Denis, il tassista. Un uomo sulla quarantina, con il sorriso accogliente e una parlantina entusiasta. Era evidentemente in vena di comunicare e lo ha fatto per sei ore di fila (giuro, neanche 5 minuti di pausa). Dalle storie di quando era bambino e il padre lo guardava con sguardo severo, fino ai motivi per cui odia Trump “the dumb shit”. Tra una risata e una bestemmia, mi ha raccontato del suo divorzio, tutto sommato felice. Anche se lui della ex moglie è ancora innamorato. Lo si intuisce dal modo in cui parla di lei e soprattutto dal fatto che ne parli così tanto. Lui lavorava tantissimo e senza nemmeno rendersene conto aveva perso di vista le cose veramente importanti. La semplicità della quotidianità rimpiazzata dal desiderio materiale. Un sera, aveva invitato la moglie a cena fuori per farsi perdonare. Lui era molto assente in quel periodo. Gli sembrava tutto perfetto: limousine, abito elegante, ristorante di pesce tra i più rinomati della città. Si siedono al tavolo di legno lucido ben apparecchiato. Lei guarda il menù, lo chiude. “Ora mangiamo e, poi, torniamo subito a casa”. Denis aveva dimenticato che la moglie è allergica al pesce. 

Quando mi racconta l’episodio colgo nella sua voce un misto di nostalgia e rimpianto. Quella sua risata nervosa cela una rabbia rassegnata e mi fa pensare alle persone che ho perso, che non sono stata in grado di tenere al mio fianco. L’amore che ho lasciato svanire e l’amore che non è riuscito a fiorire. Ma Denis mi riporta con i piedi per terra. “Perché preoccuparci delle cose che non possiamo controllare? Se fuori c’è il diluvio, non possiamo fermarlo. Ma possiamo correre dalla persona che amiamo e darle un bacio sotto la pioggia.”

La pioggia sembra essere stata particolarmente impattante nella vita sentimentale di Denis. Aveva 17 anni e gli piaceva proprio tanto una ragazza. La invita a fare una passeggiata e passa a prenderla a piedi, con un mazzo di fiori in mano. Pioveva, lei lo aveva visto dalla finestra e decide di metterlo alla prova: per quanto tempo è disposto ad aspettarla sotto la pioggia? Subdola, per me. Intrigante, per lui. Alla fine, almeno è uscita e gli ha portato un ombrello. Rimane sempre subdola, per me.

Dopo le prime tre ore di chiacchierata, il ghiaccio è più che fuso e Denis decide che è arrivato il momento di passare alle mie storie d’amore. Io adoro ascoltare le esperienze più o meno romantiche degli altri, ma quando si tratta di parlare delle mie ho un po’ di difficoltà a fare ordine nei pensieri. Racconto un episodio, in modo confuso. Lui coglie un aspetto – fino a quel momento solo la mia psicologa me lo aveva palesato – e lo declina in un consiglio che mi fa sorridere. “Le donne devono farsi desiderare, non concederti subito”, mi dice. “Quando un uomo ti corteggia, tu trattalo male. Vedrai che cadrà ai tuoi piedi.”

Bene, io non sono molto tipa da contorsioni emotive. E soprattutto provo a distaccarmi dalle dinamiche patriarcali e sessiste, in cui a chi è socialmente identificato nel genere femminile viene addossato l’onere e l’onore di essere sessualmente attraente e provocante. Ma in quel taxi ho inaspettatamente messo in pratica una cosa bella che ho letto in un libro qualche anno fa: provare ad ascoltare riducendo l’istinto giudicante e contestualizzare la conversazione tenendo conto della diversità delle cornici di cui chi interloquisce è parte. Insomma, non ho attaccato il pippone sull’emancipazione dei corpi femminili – di cui sono ferma sostenitrice – ma ho colto e elaborato il punto su cui eravamo d’accordo: cercare approvazione fisica e sessuale non è esattamente il miglior modo per trovare l’amore. Sposta il focus sulle aspettative e crea una nube in cui bisogni e sentimenti sono fusi e indistinguibili.

Denis continua il suo discorso, sulla scia di un paternalismo ingenuo che, in quella circostanza, un po’ mi fa ridere. “Se sai preparare il caffè turco e hai una bella voce, gli uomini croati cadranno ai tuoi piedi”. Evidentemente non troverò l’amore in Croazia. In macchina con noi, però, ci sono due cantanti meravigliose. Per loro, l’anello al dito è assicurato. Chiedo a Mica di cantare il suo pezzo forte, The house of the rising sun. Io e Denis abbiamo la pelle d’oca. Chissà se Mica sa fare pure il caffè nel padellino di rame.

Intanto arriviamo al confine con la Bosnia, vedo la Drina e mi emoziono. Si respira un’aria diversa. I palazzi bassi, malmessi o abbandonati. Tanti giovanissimi uomini in divisa, con addosso un’arma da fuoco parecchio più grossa della pistola da film poliziesco. La strada è polverosa e i cani randagi dormono in piccole buche che hanno scavato nel terreno. Sento un’irrequieta nostalgia quando Denis, con voce piena e bassa, mi parla delle persone che tentano di attraversare quel confine a piedi. Spesso nudi, perché la polizia croata gli toglie le scarpe e li spoglia della loro dignità. Un crudele monito a non tentare più il game.  Noi in Bosnia ci siamo entrate, con un passaporto bordeaux in mano e due domande che il poliziotto ha rivolto a Denis: “Dove vanno? Sono le tue ragazze?”. Sento il sangue pulsare nelle tempie. Ripenso agli unici due ragazzi non bianchi che erano in bus con noi il giorno prima, fermati al confine tra Slovenia e Croazia. Era notte e il loro viaggio è stato interrotto, costretti ad aspettare – non si sa chi – in una stazione di servizio a qualche metro dalla frontiera. 

Bratunac è vicina e io, alla voce calda di Denis, ci avevo fatto l’abitudine. Sono felice di aver ascoltato le sue storie e, in una certa misura, anche i suoi consigli di vita. Gli parlo del mio viaggio nei Balcani e del progetto HUMANS of the Balkans. “Su di me puoi scrivere tutto, anche della mia ex moglie!”. L’ho detto che è ancora innamorato. Bevo uno yogurt bianco, lui ride tantissimo. Non ha mai visto qualcuno bere uno yogurt bianco senza burek. 

Incontro con Maja Đukanović

A fine giugno di quest’anno, sono stata in Inghilterra con Ceci e Mica per partecipare a un progetto sul ruolo educativo delle arti partecipate nel lavoro sociale. Lì, nella main hall del Municipio, ho conosciuto Maja. Ricordo perfettamente la sera in cui le ho raccontato del viaggio nei Balcani che avevo intenzione di fare di lì a poche settimane, delle perplessità e, soprattutto, della voglia di incontrare persone e ascoltare le loro storie. Eravamo a cena con il sindaco di Bridport, con calice di vino rosso in una mano e piatto pieno di curry vegano nell’altra. Lei mi raccontava di Bratunac, la cittadina bosniaca dove è nata e cresciuta, e dove si sarebbe svolta la terza parte del progetto, scritto dal Centro Studi Sereno Regis in collaborazione con Opera Circus, un’associazione a cui Maja è professionalmente ed emotivamente legata.

L’entusiasmo nelle sue parole accresceva la mia curiosità di scoprire quel luogo, dal passato pesante eppure vivacemente proiettato verso il futuro. Tante persone giovani, tantissimi bar aperti fino a tarda sera, cicchetti di rakija a due marchi e la voglia di far festa. Dopo ho capito che quei bar sono nati dall’esigenza di disarmare i cittadini e dare loro un’occupazione lavorativa che potesse sostituirsi alla violenta sopravvivenza. Luci e ombre. Questo ho capito. Ogni luogo, come un volto, è segnato da rughe di delicata saggezza, cicatrici ricucite lentamente dal tempo e ferite sanguinanti, dolorose. La guerra è una ferita ancora aperta ma, in attesa che si rimargini, non se ne parla. Si guarda al futuro, alle cose belle, mi spiega Maja. In Bosnia, però, i palazzi distrutti, le case abbandonate, i muri segnati dai proiettili sono ancora lì. I balconi senza ringhiera, i cani randagi, le macerie per strada sono ancora lì. Ma non se ne parla.

A Srebrenica, in particolare, quella ferita è visibile e difficile da celare. Le strade sono praticamente deserte. Cerco online l’ultimo censimento e non mi sorprende scoprire che il più recente, nonché il primo effettuato dopo la guerra, risale al 2013. Ma i dati riportano numeri che mi sembrano surreali: 13.409 abitanti, di cui 7.248 bosgnacchi. Approfondisco la ricerca, fino a risalire a dati ufficiosi ma decisamente più vicini alla realtà. Oggi, a Srebrenica ci sono circa 5.000 persone, un settimo di quelle che la abitavano nel 1991. 

Mi incammino, un po’ stanca, sulla salita che porta all’area termale. Incrocio un gruppo di turisti tedeschi, due signori molto anziani seduti sulle panchine in legno di un chioschetto e una donna che, per stare al passo veloce di suo figlio, mi supera. Poi, si volta verso di me e sorride, senza fermarsi. Vuole una foto. Al suo fianco, c’è – anche se non si vede – una ragazza poco più giovane di lei, con un velo rosa chiaro. Non riesco a non pensare alle famiglie come la sua che, venticinque anni fa, sono state vittime del genocidio che ha distrutto vite, cancellato identità e traumatizzato un’intera comunità, quella bosgnacca. Anche se non se ne parla. Il trauma collettivo ha bloccato Srebrenica in uno stato di sospensione, dove non si vive ma si aspetta. Tutto sembra immobile, nella incredula attesa che quella casa in mattoni rossi possa essere abitata. E la giacca verde sulle scale, indossata. Che la lettera incastrata nella porta di vetro possa essere letta e che negli uffici vuoti possano tornare a squillare i telefoni. 

Maja mi ha raccontato che Srebrenica ha avuto un ruolo importante nel suo percorso formativo e personale. In quella città, ha frequentato le scuole superiori, ha conosciuto l’amore e, nel 2009, ha cominciato il suo percorso artistico con il Children’s Music Theatre, una compagnia teatrale nata dall’esigenza delle persone più giovani – appartenenti a qualsiasi gruppo etnico, religioso o nazionale – di creare bellezza insieme. Ancora oggi, ogni tanto, valuta l’opzione di trasferirsi lì, dove tutto ha avuto inizio. Ma quando chiude gli occhi per immaginare la casa in cui vorrebbe trascorrere le sue giornate, sente il profumo degli albicocchi in fiore, il ronzio delle api e le gocce d’acqua che schizzano dalla piscina. Una casa di legno in campagna, dove il tempo non è il nemico, ma l’occasione per creare una connessione lenta e profonda con la natura. Uno scenario un po’ naif, come piace anche a me.

Una sera, sedute sul balconcino con una sigaretta e un bicchiere di birra, ci siamo fatte trasportare dalle forti emozioni che i progetti Erasmus e la leggera ebbrezza verosimilmente suscitano. Io e lei siamo simili. Abbiamo estrema fiducia nelle persone e spesso le idealizziamo. Ci piace tantissimo romanticizzare la realtà, cogliere la bellezza che esiste in ogni essere umano e enfatizzare lo struggimento che ciascuno di essi può provocare. Bianco o nero, e i grigi si perdono un po’. Ogni cosa bella è pura meraviglia. Ogni cosa triste è assolutamente insopportabile. Dico a Maja che, a volte, sono stufa di essere come sono. Lei prende il telefono, vuole farmi leggere una frase di Jovan Dučić, uno dei suoi scrittori preferiti.

“Solo gli sciocchi sono astuti e solo le persone intelligenti possono essere ingenue. L’astuzia non è la fonte di alcuna idea sulla vita, e l’ingenuità di per sé rappresenta sempre una certa idea sulla realtà, anche se solitamente idealizzata. Ingenue sono quelle persone che hanno almeno una propria illusione sulla vita, e l’astuzia, al contrario, sono condannate a distorcere e degradare sempre la verità. L’ingenuità, cioè la giovinezza del cuore, e anche negli anni successivi. Ingenuità significa abbellire tutto ciò che ti circonda. È rendere il criterio interno maggiore dell’evidenza esterna. L’ingenuità è quindi una caratteristica delle anime belle.”

J. Dučić, L’ingenuità è una caratteristica delle anime belle

Ingenua e felice. Non mi sembra più una combinazione così terribile; forse funziona. Almeno per me e Maja. 

Natura e bellezza: conversazione con Robert Golden

L’autobus ci aspettava al solito posto, di fronte al palazzo con i buchi di proiettile. Io e Robert ci sediamo vicini per continuare la conversazione iniziata poco prima nel Cultural Center di Bratunac. La sua voce è bassa, io tendo l’orecchio perché non voglio perdermi neanche una parola. La sua fotocamera è l’occhio con cui riesce a cogliere la vita in modo libero e autentico. Le sue foto, con delicatezza, assumono un ruolo fondamentale: descrivere la realtà collettiva e individuale in modo creativo. Raccontare una storia, unica e universale. Cogliere la potenza di un attimo, che non richiede parole per urlare i bisogni di chi non ha voce.

Le foto di Robert sono belle. È inevitabile fare questo pensiero quando ci si trova davanti ai suoi scatti. Ma sento che definirle così rischi di svuotarle di significato. Perché fa così paura usare la parola bellezza? E, poi, che cos’è la bellezza? Va forse oltre il concetto di estetica che abbiamo imparato ad agognare in una società capitalista, dove la bellezza è uno standard e raggiungerlo è un dovere? Ne parlo con Robert, che sul tema ha scritto molto.

“La bellezza è la conseguenza di una forma gradevole unita a un contenuto veritiero e pertinente, in grado di rispondere alle esigenze dello spettatore. […] La forma da sola senza tener conto del contenuto è decadente, e il contenuto da solo senza tener conto della forma è dogmatico. Invece, se guardando, ascoltando, leggendo l’opera, gli individui scoprono che essa li apre a visioni più ampie sulla società o a uno sguardo più profondo sull’essere umano, allora si manifesterà un’ondata di emozioni e rivelazioni, intrinseca nel concetto di bellezza: la sensazione che la vita sia appena stata modificata in meglio.”

Ragionando al contrario, non è bellezza se rafforza lo status quo. Se distoglie lo sguardo, o esclude e discrimina. Se diventa un modello a cui conformarsi, adattarsi. 

“A partire dal 1300-1500, gli artisti cominciarono a dipingere i seni nudi delle donne, simboleggiando un misto di fertilità e sensualità. Le donne idealizzate da artisti come Tiziano erano comunemente gonfie e formose, pallide, con le guance arrossate e i volti timidi. A questo punto, un ramo separato della bellezza cominciò a crescere sul tronco autocelebrativo della nuova borghesia italiana che sponsorizzava e consumava l’arte. Dopo aver liberato le loro anime dallo spiritualismo medievale e preoccupati per lo status, il potere e la ricchezza, essi vedevano le donne come vedevano le pezze di stoffa o i forzieri di monete; vedevano le donne come un altro dei loro possedimenti. Naturalmente, il valore delle donne come oggetto doveva essere valutato in base a qualche standard e la bellezza femminile divenne parte di questo processo di valutazione, ma iniziò anche a dominare il significato più ampio di bellezza.”

Questa oggettificazione della donna, inserita in una dinamica di potere patriarcale e capitalista, attiva un doppio meccanismo, distruttivo e simultaneo, di pressione estetica e oppressione sociale. Disprezzare il proprio corpo e lavorarci su per renderlo socialmente accettabile richiede molte energie e distoglie l’attenzione da altre questioni, rendendo la donna più facilmente controllabile nelle sue scelte di consumo e di vita. Così accade che le tasche delle aziende estetiche si riempiono, creando problemi che non esistono e fornendo sempre soluzioni nuove e inefficaci. La visibilità pubblica e privata delle donne è ridotta alla mera presenza di corpi, giudicati più o meno validi in base al loro aspetto. La rappresentazione del femminile si omologa agli interessi economici, dividendo i corpi tra desiderabili e non-desiderabili allo sguardo maschile, in modo più o meno netto. Il binarismo magre-grasse, infatti, è reso ancora più estenuante dalle oscillanti richieste di mercato: magra con le curve al punto giusto, al naturale ma depilata, e così via. E, alla fine, quello che resta è la necessità di farci sempre più piccole e invisibili. Occupare meno spazio, con la conseguenza di sentirci sempre nel posto sbagliato.

Studiare la teoria mi ha aiutata a comprendere una realtà individuale e collettiva, fatta di storie diverse ma intrecciate in un nodo spesso difficile da districare: il rapporto con il cibo e i disturbi del comportamento alimentare. Nella fase critica della mia anoressia, avevo una concezione di bellezza estremamente rigida, autoriferita e intrisa di grassofobia. Cercare la bellezza non mi poneva in ascolto del mondo e delle persone che avevo intorno, ma era una corsa affannata su un percorso a ostacoli, con i paraocchi e un bibitone proteico da 5 euro al litro. 

L’autobus si ferma, siamo arrivati alla fattoria Rasadnik Nešković, dove ci stanno aspettando con una torta calda e tre caraffe di succo fresco di ciliegie. Facciamo una passeggiata tra gli alberi di mele verdi e i cespugli di more, mentre Victor ci racconta la storia della sua famiglia. Ha dodici anni, i capelli lunghi raccolti in una coda intrecciata e una entusiasta serietà.

“Io e mio fratello amiamo stare a contatto con la natura. Nel tempo libero, dopo lo studio, suoniamo uno strumento musicale o aiutiamo a raccogliere i frutti maturi. Ci piace e ci fa stare bene.”

Trovare la propria passione e il coraggio di coltivarla. Uscire fuori dagli schemi e scoprire nuovi mondi possibili. Restituire valore alla lentezza e ribaltare le aspettative sociali. Non è forse questa la bellezza?

Incontro con Nikolina Vujadinovic

Gli occhi azzurri, che diventano due piccole lune quando sorride. I capelli biondissimi, raccolti in una coda bassa e ribelle. La sua voce è delicata e potente, ma ama il silenzio. Nina sta seduta sulla banchina, con i piedi che sfiorano l’acqua della Drina. È concentrata mentre ascolta un crime podcast, vuole raccogliere gli indizi e risolvere il caso. Mi siedo vicino a lei, in silenzio e chiudo gli occhi. Francesco gioca con due bambini, lanciano i sassi sul fiume. Cecilia e Ilias sono seduti sulla riva serba e parlano per ore. Mica e Martina sono stese sui loro teli colorati, agognando i raggi del sole dopo un bagno nell’acqua gelida. Nina ha risolto il caso e vuole spiegarmi come ha fatto. Il suo sogno è diventare una detective, capire cosa scatta nella mente di chi commette crimini. Nina vuole studiare, andare al college, seguire il suo percorso e essere l’unica responsabile delle sue scelte. Vuole essere libera. 

“Molti genitori dicono alle proprie figlie di trovare un uomo ricco e sposarlo. Ma io non ho nessuna intenzione di farlo. Voglio essere libera di prendere le mie decisioni, di essere chi voglio e non chi qualcun altro vuole che io sia. La libertà, per me, è poter andare ovunque si voglia, parlare con la propria voce, decidere per sé. Qualche anno fa, ho iniziato ad avere molti dubbi sull’Universo. Volevo capire come si fosse formato o chi lo avesse creato… I miei fratelli mi dicevano che erano domande stupide e che ero ancora troppo piccola per queste cose. Così, ho deciso di non parlarne più perché avevo paura di sembrare stupida e non volevo consentire a nessuno di farmi odiare qualcosa che amavo. Poi, crescendo, ho capito di avere una voce e che dovrei essere libera di dire ciò che penso e che amo.”

Una delle sue materie preferite a scuola è Arte, perché la aiuta a riconoscere e a esprimere le proprie emozioni attraverso qualcosa di esterno e visibile. Che, poi, è quello che facciamo ogni giorno, con le piccole cose della quotidianità. Quando scegliamo di percorrere una strada nuova per ammirare un paesaggio diverso. Quando ci trucchiamo e quando decidiamo di non farlo. Quando guardiamo le nuvole e ci vediamo un volto familiare. Una risposta definitiva ai suoi dubbi sull’Universo, Nina per fortuna non l’ha trovata. Ma per lei una cosa è certa: “C’è arte nella Galassia, è veramente troppo bella.”

Ogni tanto, le piace anche l’ora di Religione, un momento di confronto e conforto da vivere insieme alle persone che, come lei, credono in Dio.

“La religione, per me, si basa sulla volontà di un gruppo di persone di incontrarsi per pregare e parlare. Sono stata cresciuta in un contesto molto religioso: mi è stato insegnato che sono cristiana e che non posso essere atea o cambiare la mia religione. Alcuni credono che il mondo si sia creato da solo. Io credo che l’abbia creato Dio, così come i musulmani credono che sia stato Allah. Mia madre mi ha sempre detto di ringraziare Dio per tutto quello che ha fatto per noi e di chiedere perdono per ciò a cui abbiamo creduto anche se non è stato Lui a dirlo, come l’Astrologia.”

Ci sono alcune cose a cui si crede e basta. Io ho sempre un po’ di difficoltà a entrare in quest’ordine di idee. Anatomizzando sempre tutto, rischio di perdermi la bellezza dell’irrazionale. Nina mi insegna che ci si può chiedere come sia nato l’Universo, senza dubitare che a creare la Terra in quello spazio infinito sia stato Dio. Che si può essere credente e libera.

“Impedire alle donne di abortire è semplicemente assurdo. Molte ragazze vengono violentate ed è terribile privarle della loro giovinezza costringendole a diventare adulte prima che siano state loro a decidere. Le donne sono costantemente sotto pressione, per tutto. Tutto ciò che a un uomo non verrebbe mai contestato. Come si vestono, cosa dicono, cosa fanno e cosa non fanno. Se un uomo tradisce, è nella sua natura. Ma se una donna tradisce, allora è una poco di buono. È contro ogni logica… E, poi, nessuno dovrebbe tradire.”

C’è una consapevolezza nelle parole di Nina che mi regala grande speranza per il futuro. La consapevolezza che esiste un sistema di ruoli e aspettative così articolato e potente da direzionare ogni decisione quotidiana – dal colore del grembiule alla carriera lavorativa – in base al genere assegnato alla nascita. E così, i bambini imparano a correre nei prati senza paura di sporcarsi, a essere irruenti e forti come gli eroi dei film (che, non a caso, trovano una rappresentazione maggiore e sicuramente più affascinante in personaggi maschili). Viene detto loro di non piangere, di non fare la femminuccia. Possono giocare con le macchinine, possono essere piccoli scienziati, possono trasformarsi in orribili mostri. Quando crescono, ci si aspetta che siano pragmatici, che occupino una posizione lavorativa stabile, autorevole o stimabile, e che abbiano uno stipendio sufficientemente alto per potersi sentire veramente realizzati nella vita (quantomeno più alto di quello delle donne con cui condividono la vita privata, per non sentirsi minacciati).

Sul binario parallelo, ci sono le bambine con i vestiti scomodi – che devono rimanere immacolati – e quelle additate come maschiacci perché di quei vestiti non gliene frega nulla. Le bambine costrette nelle scarpette da punta, quando avrebbero voluto mettere quelle da calcio. Quelle che crescono confrontando il proprio corpo con quello di miniature di donne magre, bianche, con i capelli lisci, biondi e lunghi (ma senza peli), gli occhi azzurri e un fidanzato abbronzato e muscoloso. Le stesse bambine che da adulte verranno giudicate per il loro aspetto, che spenderanno quantità esorbitanti di soldi per avere la pelle vellutata e i capelli lisci come la seta, che combatteranno ogni giorno con il proprio corpo anche – e soprattutto – quando viene detto loro di amarsi e accettarsi così come sono. Le bambine a cui viene insegnato che se un maschietto le tratta male è perché è interessato a loro e quelle che a Natale ricevono una mini cucina attrezzata, per iniziare a fare pratica.

Nelle parole di Nina c’è la voglia di capire e ribellarsi a tutto questo. Poi, su quali meccanismi di autosabotaggio si celino dietro un gesto apparentemente impulsivo come il tradimento, ci sarebbe molto da dire e so che, nonostante la giovanissima età, Nina avrebbe potuto elaborare un suo pensiero critico e profondo. Ma davanti a quegli occhi azzurri colmi di fiducia nei confronti degli esseri umani, ho deciso di essere d’accordo con lei senza indagare oltre. Il tradimento fa male, a chi viene tradito e anche a chi tradisce. 

“Mi piaccione le persone. Non sempre, ma il più delle volte. Non mi importa della religione o del colore della pelle; non mi importa se sono ricchi o poveri. Tutti hanno un potenziale unico, a me piace credere che sia così. E il mondo sarebbe un posto decisamente più bello se non provassimo più a cambiare il modo in cui siamo per sentirci accettati dagli altri. Ho avuto tante belle esperienze con persone di etnia e religione diverse dalla mia… Mi hanno aiutato quando avevo bisogno e io ho fatto lo stesso con loro, perché alla fine, quando andiamo a dormire la sera, siamo tutti umani.”

Articolo precedente

Il Pulmino Verde: oltre i confini

Articolo successivo

Educazione alla sessualità per decostruire la violenza di genere

Unisciti alla discussione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *