HUMANS OF THE BALKANS – Slovenia, Ljubljana
Prima di scendere dal Flixbus, l’idea di tornare a Lubiana mi riempiva il torace di orgoglio e il cuore di felicità. Solo quando ho iniziato a camminare su Slovenska cesta, la gioia veniva pian piano contaminata dalla rumorosa consapevolezza che le cose cambiano. In realtà, la mia era solo paura di non riuscire a rendere memorabili quei 4 giorni. Tutto deve essere perfetto, qui. Poi, fermo i pensieri. Voglio rallentare. Non sono una turista. La prima cosa da fare è comprare delle scarpe. In Bosnia, ho messo a dura prova la mia resistenza al dolore (che comunque non è stata varcata) indossando per una settimana le ciabatte Decathlon da due euro. Trovo un paio di Birkenstock rosse a prezzo ridotto (still wondering why) e decido che sono assolutamente abbinabili alle 4 magliette che ho nello zaino. Macchina fotografica a tracolla, mi incammino verso Bežigrad, il quartiere dove per alcuni mesi ho costruito una nuova quotidianità.
Cinque anni fa, preparavo le valigie per trasferirmi in Slovenia. Avevo vent’anni e qualche desiderio che ancora non riuscivo a riconoscere. Ricordo perfettamente il giorno in cui mi arrivò la mail dell’Università di Napoli, dove mi veniva detto che per i successivi 6 mesi sarei stata una studentessa Erasmus. Ero a Firenze, nella casetta al piano terra del mio fidanzato di allora. Quella sera abbiamo festeggiato con pasta e pasticcini, e la paura di perdere tante cose belle aveva pian piano fatto spazio alla gioia di poterne condividere altre, nuove.
I mesi a Lubiana sono chiusi in una bolla e quando ci penso, a volte, mi pare quasi di non averli vissuti io. Le ore in fila per il permesso di soggiorno, le chiavi del Dorm D perse ancor prima di entrare in camera, la primissima sbronza pesante al compleanno di Sarah. I pomeriggi con Meri in biblioteca, la cioccolata calda alle macchinette dell’università, il terrore di non riuscire a passare il corso della Professoressa Fikfak, la scoperta di una sensualità che non credevo di avere e la voglia – che, poi, è diventato un mantra per me e Marti – di essere “forti, autonome e indipendenti”. Quando ripenso a tutto questo, provo amore per una città che mi ha accolta, insegnandomi ad accogliere.

Incontro con Max Shonhiwa Zimani – Imprenditoria sociale e migrazioni
Tra le persone che mi hanno accolta quando ero ancora sola in una città nuova c’è Max. Ho un ricordo nitido e anche un po’ lontano delle conversazioni profonde e delle risate spontanee con Maria Elena, sedute al tavolino di Skuhna, in Trubarjeva cesta. Mi sembra di poter sentire il profumo del cibo speziato, forse indiano ma non ne sono sicura. Il menù cambia regolarmente e ogni giorno si possono provare le ricette tradizionali, tramandate da generazioni, di cuochi e cuoche provenienti da tanti paesi diversi. Non dimenticherò mai il sapore dei biscottini di ceci e cardamomo. Ho provato a rifarli appena tornata in Italia, ma ho capito che valeva la pena astenermi e aspettare di tornare a Lubiana per mangiarli. Sono passati 5 anni e sono ancora totalmente convinta di aver fatto la scelta giusta.
Cammino per Trubarjeva cesta e, quando incontro lo sguardo di Max, un sorriso illumina il suo viso e anche il mio. Tutto sembra rimasto fermo e vivo nel 2017. Lui è bellissimo con la sua camicia colorata e gli occhi che potrei guardare per ore. Mi trova bene, me ne rallegro. Ho sempre un po’ paura di rivedere persone che mi hanno conosciuta quando pesavo 20 kg meno. Molti non immaginavano che stessi male, forse neanche Max. Ma il suo sguardo dolce mi fa intendere il contrario. Mi rasserena, mi sento a mio agio. Chiacchieriamo tanto, abbiamo 5 anni di vita da raccontarci.
In questi anni Ljubljana è cambiata molto e Max conferma questa mia percezione. Se una città attira un numero preponderante di turisti italiani, vuol dire che è diventata una “moda” visitarla, quasi un obbligo da assolvere per poter confermare il proprio status di cittadino/a del mondo. Il processo di gentrificazione della capitale slovena è in corso e a dimostrarlo non è solo la presenza – a tratti ingombrante – di individui con zainetto in spalla, felpa legata alla vita, jeans e scarponcini del Decathlon (aka turista medio italiano), ma anche l’aumento spropositato dei prezzi. Quando vivevo qui, da studentessa avevo diritto al meraviglioso “Študentski boni”, che mi consentiva di mangiare un menù completo a meno di 4 euro: zuppa, insalata, primo, frutta o dolce, in qualsiasi ristorante della città. In quelle condizioni, ci si abitua facilmente a mangiare fuori. Ora, senza buoni pasto e con il rincaro dei prezzi, è diventato tutto un po’ meno spensierato. Ma, per fortuna, alcuni posti sembrano resistere alle dinamiche di mercato.
“Skuhna è un’impresa sociale. Nello spettro dell’imprenditoria, si colloca tra le aziende ordinarie e quelle no-profit, il che significa che la ragione principale della sua esistenza non è guadagnare tanti soldi, come nel caso delle aziende classiche, ma piuttosto quella di affrontare una questione sociale, nello specifico l’esclusione dei migranti provenienti dal Sud del mondo. Skuhna nasce, quindi, con l’intenzione di risolvere questo problema offrendo alle persone l’opportunità di fare rete e di trovare lavoro. All’inizio, per entrare in contatto con loro, avevamo programmi di sensibilizzazione e collaboravamo con le organizzazioni che lavorano con i migranti. Oggi, non è più necessario perché ci conoscono e vengono direttamente da noi per iniziare a lavorare.”
Quando ci siamo incontrati questa estate, Max aveva residui di vernice bianca sulle mani. Vuole fare una sorpresa alle figlie e sta ristrutturando il locale mentre loro sono in vacanza con le zie. Mi spiega che in Zimbabwe, secondo la cultura tradizionale, quando le ragazze si trovano in uno specifico momento di passaggio nella loro vita, affrontano determinati argomenti con le zie e non con i genitori. Posso immaginare a quali temi si stia riferendo Max e mi fa sorridere perché, come direbbe mia nonna, tutt’o munno è paese. Avevo 16 anni quando ho scoperto cos’è, per me, l’amore romantico – ero un po’ più grande delle figlie di Max, che si stanno avvicinando adesso a quell’affascinante strazio, apparentemente infinito, chiamato adolescenza. Quel sentimento così bello e struggente che provavo per un mio caro amico non si è mai concretizzato in una storia, e questo lo rendeva ancora più intenso. Razionalizzare era l’unico strumento che conoscevo per attutire il dolore – e che ancora oggi prediligo – e la prima persona a cui ho affidato l’arduo compito di aiutarmi a mettere ordine nella mia vulnerabilità, è stata zia Debora. Le zie hanno la straordinaria capacità di tranquillizzare come le mamme e consigliare come le amiche. Sono persone adulte in grado di trasformarsi all’occorrenza in entusiaste adolescenti, coscienziose e non giudicanti. Mentre Max mi parla delle sue figlie, con il cuore torno a Napoli, nella camera con la scrivania di legno chiaro e il copriletto a quadretti bianchi e rossi dove mi sono innamorata per la prima volta.
“Una parte del mio cuore è rimasta in Zimbabwe, dove sono nato. Nonostante io sia andato via tanti anni fa, quel posto è ancora casa mia. In particolare, quando torno da mia madre e poi vado via, sento di aver lasciato una parte del mio cuore. Sono venuto in Slovenia quando ero ragazzino per andare a scuola. Ho studiato informatica e lavorato in un’azienda che si occupava di sviluppo di software. Prima di Skuhna, ho lavorato anche come traduttore professionista. Nel frattempo, ero anche molto attivo nel settore delle ONG; ero a capo dell’organizzazione “Unione degli studenti africani in Slovenia”, e questo mi ha regalato tanta esperienza nell’ambito del sociale e nella gestione dei progetti, facendomi anche avvicinare alle problematiche che molti migranti affrontano per poter avere una vita migliore… Questo mi ha portato a fondare Skuhna.”
Le iniziative dal basso nascono da un ascolto profondo dei bisogni specifici, generano una presenza consapevole e creativa, incentivano la comunicazione proattiva sui temi specifici e favoriscono il cambiamento. I piccoli gesti possono fare la differenza. Questo aforisma, tutt’altro che banale, racchiude l’essenza dell’attivismo: osservare cosa ci circonda, ascoltare chi ci è vicino, esperire in prima persona, imparare l’arte della cura – reciproca e collettiva – e agire a livello locale. Skuhna nasce come proposta creativa a un bisogno, ossia creare uno spazio lavorativo sicuro in cui le persone migranti del Sud del mondo possano inserirsi una volta arrivate in Slovenia, e anche come realizzazione di una passione, la cucina.
“Il consiglio principale che darei a chiunque voglia avviare un’impresa sociale è quello di interrogarsi su quali sono gli obiettivi che vuole perseguire. Se lo scopo è quello di guadagnare, allora non è il caso di avviare un’impresa sociale. Prima di aprire Skuhna, abbiamo trascorso molte ore a lavorare come volontari, dato che non avevamo esperienza nella gestione di un ristorante. È stata una sfida enorme, sia a livello legislativo che sociale. Abbiamo avuto la sensazione che la gente non avesse capito il senso. Alcuni pensavano che un’impresa sociale fosse un posto dove si poteva venire a mangiare gratis… Ma non è così, ovviamente. C’è anche da dire che la Slovenia, soprattutto quando abbiamo iniziato, non è un contesto in grado di favorire l’operato delle imprese sociali. Paghiamo lo stesso ammontare di tasse delle aziende “classiche”, anche se utilizziamo la maggior parte del nostro tempo in attività che non generano denaro, come la formazione delle persone. La sfida principale che dobbiamo affrontare oggi è la mancanza di comprensione di cosa sia il social business, ma anche il fatto che non siamo ancora ben preparati come imprenditori. Perché, in fin dei conti, l’impresa sociale è un’impresa a tutti gli effetti, ma che nasce da una diversa intenzione. Ha davvero senso solo se si ha passione e motivazione profonda per quello che si sta facendo.”
Un po’ di tempo fa, mi sono trovata coinvolta in una bellissima conversazione con sette adolescenti, che si confrontavano sul concetto di bellezza. Una riflessione, in particolare, ha risuonato molto in me. “È bello ascoltare e guardare una persona mentre parla di qualcosa che l’appassiona”. Mi sono chiesta quale sia la mia passione e ho avuto non poche difficoltà a trovare la risposta. Il livello di astrazione della domanda è al pari di un “Cos’è la felicità?”. Poi, un po’ come fossi nello studio della mia psicologa, seduta sulla poltroncina blu con i braccioli in legno, nella mia mente si sono schiarite immagini, voci, sorrisi. Ascoltare ciò che le persone hanno da dire, prendermi cura delle loro parole, esprimere entusiasmo per le loro idee. Questo mi appassiona e mi rende felice. Consapevole della complessità della domanda, ho deciso di porla anche a Max.
“Più vado avanti negli anni, più mi rendo conto di come il sogno di una vita bella per tutti sia reso difficile dalle scelte di vita di pochi. L’idea alla base del social business è proprio quella di aprire le porte e ampliare la possibilità di scelta a tutte le persone. Quando anche qualcun altro sale un po’ più alto, non significa che chi era già in alto debba necessariamente cadere. Mi appassiona dare opportunità e mi rende felice sentirmi soddisfatto, quando sento che le persone intorno a me stanno bene e che io ho contribuito al loro benessere. Cercherò di essere un po’ più preciso. Ho una madre anziana e mi rende felice contribuire a farle vivere una vita bella, aiutandola economicamente. Mi rende felice aiutare mio fratello a pagare le rette scolastiche dei figli, dato che al momento mi trovo nelle condizioni per poterlo fare. Anche fare quotidianamente le cose che ti fanno sentire a tuo agio, rendersi conto che la vita è fatta per essere vissuta e non essere troppo severi con se stessi, credo sia felicità.”
Guardo l’ora, è mezzogiorno. Il tempo è volato. Quello stesso giorno il prof. Mitja Velikonja mi aveva invitata a pranzo da lui. Abita a Vič, un quartiere che non avevo ancora mai esplorato. Max mi offre un passaggio con la sua “old and dirty car”, per poter chiacchierare ancora un po’. In quella macchina grigia, vissuta e anche piuttosto malandata, mi sono sentita appassionata e felice.

Pranzo con Mitja Velikonja – Storia e attualità dei Balcani
Sono seduta sulla riva del fiume, sento il sole basso sulle spalle, il cinguettio entusiasta e alcune voci lontane. Ho lo stomaco pieno e il cuore appagato. Mitja aveva cucinato per me un pranzo delizioso, in pieno stile “army jugoslavo”. Quando aveva diciotto anni, era il cuoco in una piccola caserma di frontiera dov’era stato chiamato. C’era la leva obbligatoria in Slovenia e lui aveva deciso di posticipare l’iscrizione all’università “per togliersi il pensiero” e, poi, immergersi a pieno in ciò che lo appassiona di più.
“La mia carriera universitaria si è sviluppata lentamente, in modo quasi organico. Il mio interesse per la cultura, soprattutto per le sottoculture (vibranti anni ’80), per la diversità culturale (vivevo a poche centinaia di metri dal confine italo-jugoslavo, di cui non avevo mai percepito veramente l’esistenza) e per come la società (non) funziona, è nato durante l’adolescenza e si è approfondito nel corso degli anni di studio. È stato un periodo intenso per me, non solo a causa dello studio, ma anche perché ho vissuto da vicino il crollo di un sistema politico e sociale, di uno Stato e delle ideologie dominanti. E, poi, l’affermazione di ideologie nuove. Luci e ombre. All’epoca mi sentivo nel bel mezzo di un esperimento sociale che alla fine ha portato alla situazione attuale: la completa egemonia di due ideologie e pratiche politiche concrete, il neoliberismo e l’etno-nazionalismo. Dopo aver terminato il mio corso di laurea, mi è stato offerto di lavorare presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Lubiana. Da allora insegno e faccio ricerca, anche come visiting professor/ricercatore in altri paesi, da New York a San Pietroburgo. Mi auguro di conservare sempre – e sviluppare ulteriormente – la curiosità, l’entusiasmo e la riflessione critica che mi hanno portato alla posizione che occupo ora.”
La casa è bianca, le piante verdissime. Le ampie finestre illuminano l’ambiente di luce fresca e i quadri colorano le pareti. È un appassionato d’arte e qualche mese fa era a Ferrara per la mostra di Adelchi Riccardo Mantovani, il suo pittore preferito. Ma nello studio primeggia il ritratto di Raffaella Carrà – Mitja ne è follemente innamorato: “Alterno arte antica e arte moderna, per bilanciare!”. Mi sento accolta e per qualche ora mi sembra di tornare indietro nel tempo, a 5 anni fa, quando da studentessa Erasmus cercavo di creare connessioni con le persone che vivevano autenticamente la città. Volevo scoprirne la quotidianità e crearne una tutta mia. “Possiamo avere tante vite differenti. Basare tutta la nostra esistenza sul lavoro è frustrante e triste”. E con questa consapevolezza, Mitja riesce a preservare la curiosità, l’entusiasmo e lo spirito critico, che gli consentono di creare connessioni umane con studenti e studentesse, e di prendersene cura. Trasmettere conoscenza non basta, è necessario trasmettere fiducia per generare passione. Ci vuole umanità e l’umanità è talmente ampia che è impensabile ridurla al mestiere che svolgiamo. Io purtroppo non ho avuto il piacere di essere sua studentessa, ma un’amica mi aveva parlato del suo corso “Balkan studies” con grande entusiasmo e di lui con dolcezza e affetto.
Ero certa che Mitja mi avrebbe aiutata a fare chiarezza sul contesto storico e socio-culturale dei Balcani e ho deciso di riportare l’intervista in modo classico, con domanda e risposta, per far sì che il quadro possa essere altrettanto chiaro per chi legge.
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La regione sud-orientale d’Europa, spesso riconosciuta con la denominazione di Balcani, è prossima e territorialmente contigua al resto del continente, ma risulta generalmente conosciuta in modo superficiale, interpretata attraverso cliché e stereotipi ormai associati alla “realtà balcanica”. Quali sono gli immaginari che si sono sedimentati rispetto alla regione balcanica, consolidando preconcetti e pregiudizi che spesso condizionano la comprensione delle vicende della regione?
“A mio parere, sono sei le risposte ideologiche alla domanda “Che cosa sono i Balcani?”, che insieme creano il nucleo degli stereotipi e dei pregiudizi su quest’area. La prima è di tipo geografico: i Balcani vengono intesi semplicemente come una penisola separata e omogenea, che si estende dal nord dell’Adriatico al delta del Danubio.Tuttavia, la stessa distanza si trova anche tra il Baltico e il Mar Nero – quindi secondo questo criterio l’intera Europa potrebbe essere trattata come una penisola. La seconda risposta è di carattere storico: si tratta di un luogo nato dalla tarda dissoluzione del “principio imperiale” (esistenza di imperi e Stati multinazionali fino al XX secolo), a favore del principio europeo occidentale degli Stati-nazione. Negli ultimi due secoli, infatti, i Balcani non hanno sperimentato la balcanizzazione, ma l’europeizzazione: il processo di divisione in piccoli Paesi forzatamente omogeneizzati dal punto di vista etnico e antagonisti. Il cd. Kleinstaaterei. La terza risposta riguarda la sua condizione culturale: i Balcani sono intesi come una caotica mescolanza – in prospettiva huntingtoniana, naturalmente confliggenti – di diverse tradizioni culturali, etnie e confessioni religiose. Sono stati identificati, in diversi periodi storici, come crocevia, ponte o baluardo tra diverse culture. In un’ottica più romantica, come una “macedonia”, un insieme di piccoli pezzi non correlati tra loro. La risposta socio-psicologica – quarta in ordine di tempo – è costruita sull’essenza dell’homo balcanicus, molto in linea con l’ambivalenza del “buon selvaggio” di Rousseau, in cui la brutalità si incontra e convive con la gentilezza, la bruttezza con la bellezza e il coraggio con il tradimento. La risposta politica dipinge i Balcani come la polveriera d’Europa – i francesi direbbero: pays balkaniques, pays volcaniques – da cui sono scaturiti tutti i problemi dell’Europa, compreso il nazismo (secondo la tesi del famigerato Kaplan). L’ultima, sesta risposta alla domanda su come definire i Balcani, riguarda la sua posizione simbolica: definisce i Balcani come non del tutto europei, o non europei affatto – come “l’altra Europa”, “la seconda Europa”, “l’Europa selvaggia”, “l’Oriente più vicino”, ecc. (nel mio archivio ho raccolto decine di squalifiche di questo tipo da discorsi politici, dichiarazioni ufficiali, opinioni dei media, definizioni di “esperti”, nella letteratura e nell’arte in generale e così via). Quindi, un altro interno dell’Europa, un Quasimodo che potrebbe essere salvato dalla sua barbarie se seguisse il “cammino europeo”, ma che può anche facilmente ricadere nell’indefinita “arretratezza orientale”. In breve, una descrizione ideologica chiave dei Balcani sarebbe: liminalità.”
Le vicende dei Balcani sono spesso interpretate attraverso un paradigma di totale eccezionalità (nella maggior parte dei casi declinata in termini negativi), prodotto dal mancato confronto tra le vicende locali e contesti più ampi. Il passato e il presente di questa regione sono contraddistinti da lingue, culture e religioni differenti ma anche da comunanze e prossimità, da esperienze storiche specifiche ma anche da dinamiche politiche, economiche, culturali di dimensione regionale, transnazionale e globale. Come si può provare a rappresentare tale complessità, evitando di ridurla a una storia di violenza, ma nemmeno a un paradiso multiculturale romanticizzato?
“Allo stesso modo in cui hai posto la domanda: rappresentando criticamente tutte queste complessità; combattendo gli eccezionalismi (sia quelli negativi balcanici sia quelli positivi “occidentali”); esponendo le somiglianze e le differenze con le regioni vicine (il bacino del Mediterraneo: suggerisco ai miei studenti di leggere l’opera principale di Braudel anche dal punto di vista balcanico. L’Europa orientale e centrale: il riferimento è ovviamente a Larry Wolff. Il Vicino e Medio Oriente: Grosrichard e Said/) e nel contesto di un mondo sempre più globalizzato; storicizzando, come ci ha insegnato Jameson, e collocando il suo passato, il suo presente e il suo futuro in una prospettiva storica più ampia; e, infine, anche evidenziando l’eccezionalità e l’unicità dei suoi progetti e periodi di emancipazione (come l’antifascismo autoctono e la liberazione partigiana, la rapida modernizzazione, le alternative politiche come la politica di non allineamento jugoslava e il socialismo autogestito, ecc.). Inizio i miei corsi sui Balcani, qui e all’estero, in modo derridiano, spiegando che in realtà non ci sono Balcani, non c’è Europa, non c’è Occidente, non c’è democrazia, non c’è libero mercato, non c’è nazione, ecc., che tutti questi non sono altro che costruzioni ideologiche con conseguenze reali e molto concrete (e per definizione, in ultima istanza, dolorose). Poi discutiamo come e perché funzionano in modo così persuasivo.”
Questa complessità si riflette anche sulla disomogeneità delle esperienze socialiste e delle transizioni post-socialiste. Penso in modo particolare alle guerre di dissoluzione della federazione jugoslava. In che modo e perché tali processi sono stati contraddistinti in modo diverso a seconda dei contesti?
“Le guerre jugoslave sono state la conseguenza della combinazione letale di due ideologie e pratiche politiche già menzionate. Come Darko Suvin espone nel suo brillante libro, le pressioni neoliberiste, esercitate dalle istituzioni finanziarie internazionali sulla già debole economia jugoslava all’inizio degli anni Ottanta, portarono alla crisi economica. In pochi anni avvenne la disintegrazione politica e – con le nuove élite – l’ascesa di un paradigma ideologico, politico, economico e sociale completamente nuovo. Affianco alle élite emergenti, vi erano ancora le vecchie élite che pretendevano di conservare i loro privilegi. Entrambe si sono rivolte al neoliberismo e all’etno-nazionalismo, che si sono assicurati il potere attraverso la cosiddetta privatizzazione – non era altro che un furto legale – la de-nazionalizzazione, diverse forme di corruzione e infine attraverso i conflitti armati. Chiamarle “guerre etniche” è una menzogna persistente e deliberata che nasconde i loro veri motivi e conseguenze, ossia la radicale ridistribuzione del potere (o dei poteri, se seguiamo Bourdieu) da parte delle élite. Una volta che i beni collettivi e statali sono diventati improvvisamente e legalmente loro proprietà privata, il caso è chiuso. (Come nel caso della figura Superciuk nel fumetto italiano Alan Ford che è stato il più popolare fumetto in Jugoslavia: ruba ai poveri per dare ai ricchi…).”
Le difficoltà e le contraddizioni del lungo processo di trasformazione del sistema politico-economico hanno sicuramente determinato le questioni che riguardano l’attualità politica, economica e sociale della regione. Quali sono principali sfide dell’oggi?
“Sono molte e tutte interconnesse. La vittoria ideologica dell’etno-nazionalismo e del neoliberismo definisce i Balcani in modo orizzontale, come un luogo di serie di differenze culturali, etniche ecc. sullo stesso piano. La prospettiva verticale, di classe è quasi del tutto trascurata: non si parla di povertà, di migrazioni di massa, della fuga dei cervelli, del neo-patriarcalismo, del neotradizionalismo, della pauperizzazione di intere regioni, delle élite cleptocratiche che – spesso con la benedizione e il sostegno della cosiddetta “comunità internazionale” – esercitano un potere totale nei loro Paesi che stanno cadendo sempre più in una posizione periferica, se non addirittura coloniale, non solo al di fuori, ma anche all’interno dell'”Europa Unita”. Credo quindi che le principali sfide dei Balcani siano molto simili a quelle di altre parti del Terzo Mondo contemporaneo: trovare le alternative praticabili al paradigma neoliberista/etno-nazionalista; stabilire una società giusta; emancipare i gruppi discriminati ed emarginati; trasformare l’avidità capitalistica in un paradigma sostenibile di non crescita; invertire le tendenze di classe, genere, etnia, sesso e tutte le altre gerarchie. Parafrasando Horkheimer: chi non è disposto a parlare di neoliberismo dovrebbe tacere anche sull’etno-nazionalismo; e chi non è disposto a parlare della nuova Europa, dovrebbe tacere sui Balcani.”
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Terminato il pranzo, brindiamo con un liquore alle erbe della Dalmazia, fortissimo. Aveva appena ricevuto la notizia che il suo saggio Poetry After Srebrenica? Cultural Reflection Of The Yugoslav Eighties sarà tradotto anche in ucraino. Nel suo denso lavoro di ricerca, pubblicato nella raccolta “Yugoslavia: Chapter 1980-1991”, curata dal Comitato di Helsinki per i Diritti Umani in Serbia, Mitja ha analizzato la creazione odierna di versi, suoni, vignette, quadri, parole o immagini della Jugoslavia degli anni Ottanta, con l’obiettivo di comprendere il modo in cui questi risuonano nella società di oggi, 40 anni dopo il suo inizio e 30 anni dopo la sua fine. Riporto un breve estratto – tradotto da me (scusa Mitja!) – che può aiutare a farsi un’idea su quale sia la prospettiva indagata dall’autore:
“Il virus culturale degli anni Ottanta è migrato anche in rete. Internet è pieno di eventi Facebook, pagine web, blog un tempo popolari, chat room e tutto ciò che consente di creare reti digitali e incentiva la feticizzazione della belle epoque tardo-jugoslava. Uno dei più emblematici è il gruppo Facebook “Osamdesete u Zagrebu” (Gli anni ’80 a Zagabria), che dal 2014 ha riunito circa 35.000 membri. I suoi post sono per lo più incentrati su argomenti quali musica, moda, sport, design, libri e riviste popolari e vita quotidiana. Inoltre, una valutazione così esclusivamente positiva degli anni ’80 è stata gradualmente adattata dal settore commerciale come fonte redditizia. Gli imprenditori nostalgici lo sanno bene: la nostalgia vende! Le catene di supermercati, anche quelle di proprietà straniera, organizzano le settimane dedicate allo shopping nostalgico, in cui offrono prodotti dei giganti dell’ex Jugoslavia, dai cioccolatini Bajadera all’immancabile Cockta.”
Mitja non è l’unico della sua famiglia ad avere una propensione per la scrittura. Sua sorella, Nataša Velikonja, è sociologa, poetessa, saggista, traduttrice e attivista lesbica. Nel 1994, ha pubblicato “Abonma” (Subscription), la sua prima raccolta di poesie nonché la prima raccolta di poesie apertamente lesbiche in Slovenia. È la fondatrice della Biblioteca Lesbica e dell’Archivio presso il centro sociale AKC di Metelkova, il quartiere più colorato di Lubiana.
Ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Premio Župančič nel 2016 e il Premio letterario internazionale Kons nel 2018. Avrei voluto tanto incontrarla, farmi raccontare da lei quand’è che ha trovato nella poesia la libertà di esprimere se stessa.
Io e Mitja voliamo da un argomento all’altro e tutto sembra essere intrecciato, interconnesso. Parliamo del disagio giovanile, di quanto sia difficile “diventare adulti” e entrare nel mondo del lavoro. Molti giovani vanno via dai Balcani, alla ricerca di opportunità più diversificate, di un posto in cui farsi notare e poter essere completamente se stessi, senza paura di essere etichettati o giudicati. La possibilità di essere visti e il potere di rendersi invisibili. L’assenza di questa bidimensionalità simultanea caratterizza anche molti luoghi al di fuori dei Balcani, ripenso alla mia esperienza. Sono nata e cresciuta in una città che conta più di 900 mila abitanti e non ricordo una fase della mia vita napoletana libera dalla sensazione di essere osservata con giudizio. “Si può essere veramente liberi in un luogo in cui tutti ti conoscono e giudicano le tue scelte?”.
Amiche di ostello – Una giornata con Gabriela
Le persone vanno e vengono, L’evanescenza che si respira negli ostelli è strana. Una sensazione, al tempo stesso, nostalgica e accogliente. Ogni tanto, mi capita di immaginare come sarebbe vivere in un ostello, vivere quotidianamente la scarica di energie che porta chi arriva; la sua voglia di scoperta, l’apertura incentivata dalla temporaneità della sua permanenza. Quando va via, lascia sempre la traccia, leggera ma indelebile, di un’esperienza unica. Non ricordo tutti i nomi – e le facce – delle persone che ho incontrato nei corridoi di Hostel Zzz. In realtà, non ricordo neanche i nomi dei compagni e delle compagne di camera. La mia memoria a breve termine ha sicuramente influito su questa defaillance (mi sarebbe piaciuto poter nominare, ad esempio, il soggetto con cui ho vissuto un fugace innamoramento… ma niente, tabula rasa); ma, a mia discolpa, devo dire che ogni sera compariva un volto nuovo, per poi scomparire il mattino seguente senza dire nulla. Due ragazze francesi mi hanno accolta quando sono arrivata, poi gli armadietti si sono svuotati e al loro posto sono arrivati due ragazzi inglesi, che preferivano usare il pavimento piuttosto che i cassetti. Capelli lunghi, stile hipster trasandato, con le ciabatte consunte appese allo zaino ancora più consunto e una schiscia contenente del cibo in stato di decomposizione. Tutto sommato carini e interessanti (sembrava interessante il 35% delle cose che dicevano, percentuale equivalente a quello che io comprendevo… ho ancora un po’ di problemi con l’accento british). Apro il frigorifero e all’improvviso sento un ben scandito “Where are you from?”. Sobbalzo, pensavo di essere sola. “Italy”, rispondo involontariamente scontrosa. Lui si apre comunque in un sorriso gentile. “Lo sapevo, me lo sentivo. Ti ho vista ieri e volevo dirti che hai dei capelli pazzeschi, ma non parlo bene l’inglese e non volevo fare figure di merda”. Come me, anche lui – di cui chiaramente non ricordo il nome – stava viaggiando da solo. Sono certa che se la sia cavata benissimo, anche se non parla bene l’inglese.
L’unico nome che ricordo è quello di una ragazza cilena, con i capelli lunghissimi e luminosi che le incorniciano il viso familiare. Gabriela è stata la mia compagna di stanza solo per una notte, ma in pochi minuti di conversazione informale – di quelle che si fanno di solito tra persone che non si conoscono – si è creata una bella connessione. Sentivamo quasi l’esigenza di raccontarci quante più cose possibile, consapevoli entrambe di quella famosa evanescenza da ostello. Gabriela è una viaggiatrice, si sente viva quando prepara lo zaino e parte per una nuova avventura. Ripensa alle strade che ha percorso, alle persone con cui ha parlato, al cibo che ha assaggiato per la prima volta. Oggi qui, domani lontana. “Can you imagine being there one day and wherever in the world tomorrow. Beautiful”. Ma per lei, il viaggio non è sinonimo di vacanza. Lei vuole essere presente a se stessa e nel mondo, non prendersi una pausa dalla sua vita e partire per luoghi lontani. “I am not on vacation. I’m just living my life”. Quando le nostre strade si sono incrociate per qualche ora, lei stava organizzando l’itinerario che l’avrebbe condotta in Cile, dalla sua famiglia. Non vede i suoi da anni e l’idea di poter fare colazione tutti insieme e di lasciarsi coccolare un po’, la emoziona molto. È lo stesso pensiero che faccio io, ogni volta che torno a Napoli. Me la voglio godere, con la consapevolezza che non è l’unica casa che ho. Possiamo sentirci a casa ovunque, ma è raro che accada. Sicuramente, Lubiana è stata e rimarrà sempre casa mia. La sera di quell’unico giorno trascorso in compagnia di Gabriela, decidiamo di superare insieme la pigrizia – altra caratteristica che ci accomuna – e scendiamo al bar dell’ostello. Chiediamo una birra, non la hanno (dove andremo a finire?!). Ci propongono un gin tonic come alternativa, lo prendiamo senza troppo indugio. Brindiamo alla scoperta dell’indipendenza, alla libertà dei “solo trip” e alle donne che vogliono una vita diversa da quella che ci hanno detto di vivere. Brindiamo a chi scrive e a chi legge, a chi si lascia affascinare dalla novità. Suona la sveglia, sono le 23.30. I vestiti nell’asciugatrice dovrebbero essere pronti per tornare a riempire il mio zaino vuoto. Il giorno dopo, sarebbe iniziata una nuova avventura.


Appassionata di scrittura e giornalismo, provo a dare forma ai diritti umani con le parole.
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