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Sesso al primo appuntamento – Appunti di terapia

Scritto da:

Benedetta Pisani

È ormai da qualche anno che la mia vita sentimentale è fatta solo di primi appuntamenti. In tre ore consumo tutto e, poi, ricomincio daccapo con un’altra persona. L’attesa adrenalinica della scoperta, l’euforia della performatività intellettuale e fisica, la condivisione emotiva (e apparentemente esclusiva) di vissuti personali, un (breve) periodo di attaccamento, la delusione delle aspettative che inconsciamente popolano i miei pensieri e il distacco mai veramente definitivo da quella persona che, in ogni fase, ha un ruolo preciso: farmi sentire validata. Una routine piuttosto rodata e scontata ormai.

Ogni settimana, sono seduta sulla poltroncina grigio antracite di uno studio radical chic pieno di libri, sculture in argilla, quadri minimalisti, fazzoletti 4 veli e cioccolatini che nessuno ha mai il coraggio di mangiare. Piango un po’, poi rido. Libero il mio flusso di coscienza, poi teorizzo ciò che provo. Dico e mi contraddico. Le chiedo e mi chiedo perché nessuno resta. “Perché dovrebbero farlo?”, mi risponde.

Perché il primo appuntamento è andato molto bene. Perché abbiamo parlato tanto, abbiamo riso. Perché ero a mio agio e credo che anche lui si sia sentito così. Perché è bellissimo e pensa che anche io lo sia. Perché abbiamo fatto sesso e io vorrei farlo di nuovo.

Mi sembrano tutti ottimi motivi per rimanere. Ma io, poi, non lo so se mi interessa quello che viene dopo. E allo stesso tempo, aspettare che le rose fioriscano, dare tempo al tempo, e l’idea parecchio sessista di farmi desiderare, proprio non fa per me. Non credo nella necessità di sentire un sentimento per godersi una sana scopata e non limito la possibilità che possa nascere un sentimento dopo aver scopato. Ma in tutto questo, imprescindibile è la comunicazione delle proprie intenzioni, per il (meraviglioso e sottovalutato) bisogno di autodeterminazione di tutte le parti in causa. Esprimere i propri bisogni è estremamente liberatorio e, al tempo stesso, consente anche all’altra persona di essere libera.

Detto questo, torniamo alla mia seduta di psicoterapia. Insiste: “Nel caso in cui cercassero una relazione, perché dovrebbero rimanere proprio da lei? – mi dà del lei, e ogni volta realizzo di essere più adulta di quanto mi sento – Le conversazioni brillanti non pesano più delle azioni.” E le mie azioni dicono che io voglio fare sesso. Molto vero, ma perché dovrebbe implicare una non-accessibilità emotiva? Discorso complesso, che non voglio rischiare di banalizzare. Sono convinta che lo stigma sessuale colpisca tutte le persone in modi molto diversi a seconda del genere socialmente attribuito. Impossibile ignorare il contrasto percettivo quando a compiere una specifica scelta sessuale è un uomo o una donna. La donna deve farsi desiderare, se la dai subito l’uomo perde interesse. Devi prenderti cura di te, altrimenti chi ti prende. Se non sei un po’ provocante, lui va da un’altra. Questa roba, detta in forme varie ed eventuali, è espressione della dinamica di potere maschilista che segna il confine tra oggettificazione e legittimazione. Se la scelta di fare (o non fare) sesso al primo appuntamento è condizionata dalla convinzione di non essere mai abbastanza e dal bisogno di fare in modo che l’altro resti, il potere non è più nelle proprie mani. E io, seduta su quella poltrona grigio antracite, ho scoperto che per non perdere quel potere decisionale lo metto spudoratamente in pratica, perdendo di vista quello che voglio.

Tra le modalità con cui tento di agire questo potere, prima fra tutte è la scelta della location per il primo incontro: casa mia. Un luogo in cui mi sento al sicuro e che per la sua estetica mi fa sentire più forte. Un luogo chiuso, quasi virtuale, in cui entrambe le parti (o più) sono libere di mostrarsi come vogliono, di performare senza ostacoli sociali, di condensare tutte le tappe in un’unica serata isolata. Fuori casa, tutto è più lento. Passare dalla risata alla scopata richiede maggiore sforzo. Fuori casa mi sento paradossalmente più nuda e la performatività intellettuale diventa ancora più stressante perché è l’unico strumento che ho per ottenere validazione. Se al primo appuntamento a casa non ne seguono altri, mi sento rifiutata fisicamente. Se al primo appuntamento fuori casa non se seguono altri, mi sento rifiutata fisicamente e intellettualmente. Un rifiuto decisamente più impegnativo da sopportare. [Mentre lo scrivo, mi rendo conto di quanto la difficoltà di accettare un rifiuto – esplicito o implicito – sia l’altro elemento problematico che sento di avere in comune con un maschio bianco etero cis basico che vuole detenere il controllo sulle scelte altrui]. “Che maschi bianchi etero cis frequenti?”, mi ha chiesto uno dei rari casi di maschi non-basici che ho incontrato nel mio percorso sessuale e emotivo. Anche lui non è rimasto.

Alla fine della fiera, io non ho capito se il sesso al primo appuntamento è di per sè un deterrente. Non ho capito se voglio un secondo appuntamento oppure ho solo bisogno di approvazione. Non ho capito perché nessuno resta e neanche perché sia ancora attratta dai maschi etero cis.

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