Sexting e mito della bellezza

Un anno fa mi è arrivata una di quelle esilaranti mail ricatto, in cui mi si chiedeva con sospetta gentilezza di pagare (solo) 400 euro per evitare che i miei nudini andassero in giro. Sebbene fossi del tutto consapevole che si trattasse di una truffa da quattro soldi, sono entrata nel panico. Banalmente perché io, i nudini sul telefono, li avevo veramente. Conservati liberamente nella mia galleria foto e inviati a un gruppetto discreto di increduli fruitori. Tutte le ansie che non ho mai avuto mentre scattavo le foto, si sono unite in un turbinio di confusa disperazione che mi ha condotto alla polizia postale. Arrivo ansimante agli uffici di Porta Palatina e spiego la situazione a un poliziotto che, con fare paternalisticamente rassicurante, mi dice: “Non ti preoccupare” – dare del tu alle donne, per di più giovani, è evidentemente la prassi – “è una truffa. Ma tu le foto evita di fartele”.
Me ne torno a casa con una montagna di ansia, che l’incontro con il baldo poliziotto non ha levigato neanche di mezzo millimetro, e pure un bel cumulo di senso di colpa. Mi ero ripromessa di non inviare più le mie foto a nessuno. Inutile dire che la promessa è durata poco e il divertimento apparentemente superfluo del sexting ha preso il sopravvento. Come rinunciare all’illusione di avere potere e controllo su un corpo senza neanche toccarlo?
[Piccola parentesi, di quelle che adoro aprire a sproposito nel mezzo di un discorso anche quando parlo: le persone a cui non interessa il sexting o che sono assolutamente in grado di rinunciarvi ESISTONO, LO SO… Ma in questo flusso di coscienza che chiamerò articolo, racconto principalmente il mio rapporto tra corpo, pornografia e approvazione. Un rapporto in cui il sexting è semplicemente irrinunciabile].
Un gioco di luci e pose, distensioni e contrazioni. Tutto perfettamente calcolato, quasi professionale nel processo di shooting e texting. Le foto giuste, nel momento giusto, con le frasi giuste. “Benedetta mi leggi nel pensiero”. La tipica scontata incredulità a cui accennavo poco fa e che mi eccita perché, a modo suo, mi fa sentire validata. Poi, ne parlo in terapia. Perché lo spensierato godimento non appartiene alla mia persona. “Come si sentiva prima di iniziare la sua sessione di sexting?”.
[Si, la mia psicologa mi dà del lei e ha una dialettica estremamente elegante, in qualsiasi contesto, anche quello più spudorato.]
Sintetizzo tre anni di psicoterapia: annoiata, agitata, sola, triste, rifiutata, non bella. Insomma, il quadro della disperazione. E cercare validazione fisica, in una società grassofobica e ossessionata dal mito della bellezza, è la scorciatoia per ingannare quei sentimenti, piuttosto che starci dentro e soffrire un po’. Fin qui, tutto lineare e forse pure banale. La situazione si complica quando il sexting non è via d’uscita ma trappola per incastrare le proprie insicurezze all’interno di una caratteristica personale. Così, evitiamo di affrontarle e possiamo addirittura esacerbarle in qualcosa di più mistico e tenebroso. In altre parole, l’ancestrale dicotomia santa-puttana si ripropone anche su Telegram (WhatsApp, Instagram, Messenger… il fine giustifica ogni mezzo). “Io sono fatta così. Mi diverto”. Vero, ma più complesso [mai una volta che il mio “sono fatta così” mi convincesse al 100%].
Interpretare un ruolo e mettere in scena una performance che, di fatto, limita in modo esponenziale la possibilità che tra la santa e la puttana riesca a inserirsi una persona che vuole e sa comunicare attraverso mezzi diversi dal sexting, e magari c’ha pure voglia di avere una relazione basata sull’amore e non solo sul sesso (esagero!). Quel ruolo e quella performance costituiscono, quindi, l’ostacolo auto-imposto alla creazione di interazioni profonde, dove a scoprirsi sono prima le vulnerabilità, le passioni, le paure, e poi le tette. Ma l’aspetto curioso del sexting (di quello che faccio io, ben inteso) è che balza del tutto l’attesa per entrare in confidenza e diventa primo strumento di conoscenza con chi, verosimilmente, non incontrerò presto di persona. Una sorta di spersonalizzazione del sesso, annullamento del proprio erotismo per compiacere quello altrui. Un altruismo pornografico. Una prostituzione volontaria. La prima volta che ho sentito abbinare la parola prostituzione alla mia persona è stata in terapia.
[Vi starete forse chiedendo quale psicologa decente possa fare un parallelismo tra una sua paziente e una prostituta… Bene, la mia! Ma nel suo studio bellissimoradicalchic, la parola si libera dello stigma sociale e della famosa dicotomia, che diviene aspetto critico sul quale mi diverto a teorizzare prima che lei mi smorzi l’entusiasmo intellettuale, invitandomi a rimanere presente alle mie emozioni invece di razionalizzarle sociologicamente].
Insomma, “vendere” il corpo per compiacere lo sguardo maschile. Il male gaze, quel grande infame. E ricevere il suo riscontro positivo mi fa immediatamente e momentaneamente sentire più bella, più adulta, più emancipata, più emotivamente indipendente, delle altre.
Dalila Bagnuli, attivista Body Positive e femminista intersezionale, nel suo ANTI Manuale della Bellezza, scrive:
“Viviamo in un sistema che ci mette le une contro le altre e ci chiede di giocare agli Hunger Games del patriarcato (ne sopravvivrà solo una!), però si aspettano che fra di noi siamo solidali e sempre sorridenti; insomma, anche quando giochiamo seguendo le loro regole… sbagliamo! La verità è che non siamo rivali per natura, sappiamo fare gruppo cme gli uomini, ma per riuscirci dobbiamo sganciarci dal modo in cui ci raccontano. Non siamo più pettegole, più disonenste e frivole di loro, ma continuiamo a sottostimarci e a pensare che dobbiamo bellezza e perfezione al mondo per meritare rispetto in cambio.”
Il sexting, così come il sesso kinky e la fruizione di porno diventano ulteriori strumenti di valutazione che gli uomini (LO SO, NON TUTTI GLI UOMINI) utilizzano per catalogare le donne e metterle in competizione. Ma attenzione, non dimentichiamo la famosa dicotomia. Come scrive Dalila, alla fine anche quando giochiamo seguendo le loro regole, sbagliamo. Mi tornano in mente le parole di alcune persone che, indistintamente dal tipo di rapporto con la sottoscritta, ci hanno tenuto a ricordarmi che dagli uomini bisogna farsi desiderare per farli restare. “Se ti concedi subito, quelli poi ce passa o sfizio”. E, a me, l’idea che rimangano mi terrorizza. Quindi, daje con gli uomini emotivamente non disponibili e con una buona dose di sexting/sesso al primo appuntamento per essere sicura di non rischiare.
Un paio di giorni fa, Giulia Zollino, educatrice sessuale, sex worker e scrittrice, ha proposto alle persone che la seguono su Instagram, e che hanno voglia di contribuire alla costruzione di un episodio del suo podcast su Patreon, di condividere in un audio la loro esperienza con il sesso kinky e soprattutto cosa hanno imparato su se stesse. Sebbene non avessi le idee troppo chiare, ho iniziato a registrare il mio audiolibro. Le ho raccontato della prima volta in cui ho chiesto a un uomo (in questo caso, il mio fidanzato) di darmi degli schiaffi sul viso mentre facevamo sesso. Lui è la persona più sensibile e emotivamente intelligente che conosca e in un momento di calma mi ha chiesto se quella richiesta fosse un modo per scaricare su di lui la responsabilità di punirmi per qualcosa. Di fatto, avevo messo in atto una dinamica punitiva. Avevo palesato la mia ancestrale difficoltà di assumermi la responsabilità dei miei errori e la totale calcificazione in un’immagine di me incapace di sopportare il peso della responsabilità di contribuire al benessere o al malessere di una persona che mi ama [tante parole… ma giuro che se la leggi tre volte ha senso]. La paura di legarmi a una persona e il rischio di perderla mi hanno portata a fare di tutto affinché questo avvenisse. Sexting con un altro. Un exploit di autosabotaggio e spersonalizzazione del sesso.
Che cosa ho imparato dal sexting e dal sesso kinky? Che il livello di divertimento e godimento è strettamente conneso al mindset. Con un approccio curioso e divertito, il sesso kinky rappresenta un interessante mezzo di espressione creativa del sé. Ma se il senso di colpa è una presenza predominante, il dolore fisico può facilmente diventare strumento di espiazione. Alla fine della fiera, le sante e le puttane non sono poi due variabili così dicotomiche.

Appassionata di scrittura e giornalismo, provo a dare forma ai diritti umani con le parole.
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